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Un’irrinunciabile coralità di grida e gemiti

«Tocca ai soldati far la guerra, disse la mamma di Elvira. Non si sono mai viste delle cose così. Tocca a tutti, dissi. A suo tempo gridavano tutti» (C. Pavese, La casa in collina, RCS, Milano 2003, p. 32). 

Quando nel 1948 Cesare Pavese pubblicò il romanzo breve La casa in collina diede alla luce un’opera capace di condensare in poco più di centoventi pagine un quadro storico vasto e variegato, innervato di sottili dinamiche socioculturali, riassumibile nelle cinque, disarmanti parole pronunciate dal protagonista Corrado: «A suo tempo gridavano tutti».  

Il contesto storico rappresentato è quello della Seconda guerra mondiale: lo scontro procede imperterrito da tre anni e nell’arco temporale proposto al lettore si assiste alla faticosa, ma ormai consueta, quotidianità tra le colline langarole prima, durante e dopo l’8 settembre. Corrado, voce narrante, è un professore di scienze inerte, piatto ed egoista che, lavorando a Torino ma abitando fuori città, vede e vive tutti gli eventi che hanno segnato il capoluogo piemontese durante la guerra e le loro dirette conseguenze sull’esistenza concreta e gli ideali morali della popolazione. Egli inizia casualmente a frequentare un gruppo di operai che, sebbene divisi dalle diverse matrici ideologiche, si riconoscono concordi nell’affermare il loro malcontento per lo status quo e si ritrovano sognando collettivamente di cambiarlo. Nel corso di queste conversazioni e di altri incisivi incontri il protagonista scopre e dimostra attraverso scelte e comportamenti tutta la sua passiva e inetta immobilità, la quale viene messa in ulteriore risalto dall’accostamento con le molteplici e variegate personalità con cui egli entra in contatto, dialoga e si confronta. 

Il lettore non avrebbe potuto avere di fronte a sé un quadro più completo e meglio delineato della copiosa varietà di percezioni, approcci e modalità di gestione dell’enorme caos che è stato la Seconda guerra mondiale – e che ogni guerra necessariamente è – e delle sue ineluttabili conseguenze. Pavese, infatti, scelse di evitare sia una raffigurazione strettamente manichea di quegli anni, sia una narrazione unicamente focalizzata sulla vita partigiana – caratteristiche invece di molti autori coevi – e optò per una rappresentazione onnicomprensiva della Resistenza, dando voce e talvolta risposta alle molte domande di senso che gli anni immediatamente successivi al 1945 ponevano con urgenza. E così non solo socialisti, comunisti e fascisti convinti – punti fermi dell’immaginario resistenziale –  ebbero voce nel coro italiano di penna pavesiana, bensì anche disertori della prima e dell’ultima ora, attendisti che capirono, ma temporeggiarono inerti, cittadini comuni privi di una posizione precisa e tutti coloro che, scissi, dovettero trovare un equilibrio morale, anche precario, tra l’educazione fascista ricevuta e il battente dovere coscienziale o tra quest’ultimo e gli interessi privati. Tutti, di fatto, gridavano a suo tempo. 

Il fotogramma umano che questo romanzo propone può diventare un punto di partenza interessante per avviare una riflessione circa le modalità di rappresentazione – narrativa e non – con cui oggigiorno viene proposta la maggior parte delle situazioni complesse e arduamente composite, siano esse belliche, socioculturali, economiche o l’insieme delle tre. In quante occasioni le profondità articolate del reale, che raramente possono essere incasellate in un semplicistico sistema binario di giusto-sbagliato, subiscono un grigio, svilente appiattimento – indegna resa verbale di una moltitudine necessariamente multiforme e stratificata? In quante altre l’ampio ventaglio di prospettive, frutto di condizioni di vita, scelte e necessità squisitamente umane, viene richiuso e accantonato per lasciare in primo piano solo le due o tre voci preponderanti che, gridando ferventemente, sanno sovrastare con foga egoista i gemiti bisbiglianti, ma pur sempre presenti di chi vive e vede la quotidianità comune? Nascondersi dietro la confortevole facilità della retorica manichea è una delle grandi, rischiose tentazioni che si presentano alle persone quando esse sono di fronte ad avvenimenti di ampia portata poiché la complessità del reale necessita di faticosa pazienza per essere osservata e ascoltata in ogni sua sfaccettatura e quest’operazione richiede un acquietamento e un’attenzione impegnativi a cui raramente esse sono disposte. 

Tuttavia, in un momento storico in cui le narrazioni degli avvenimenti, anche quelli di rilevanza internazionale, sono sempre più diversificate, rapide e talvolta approssimative, e quindi più imprecise, soggette a ritrattamenti e talora non verificate, prendere del tempo per ricercare e indagare anche le voci meno risonanti e definite prima di plasmare un’idea propria diventa l’unico modo per avvicinarsi alla pluralità della verità. Si tratta di un investimento irrinunciabile per tentare una comprensione globale del reale e quindi per superare quella retorica sterile che maschera la propria semplicistica categorizzazione binaria con la coerenza imperturbabile, dando l’illusione che la rapidità di giudizio sia assimilabile all’integrità morale, quando in realtà spesso cela solo una sbrigativa superficialità. Perché anche oggi, come allora, gridano tutti.

 

[Photocredits Mayank Dhanawade by Unsplash]

 

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Clara Bottega

Fantasiosa, ambiziosa, ritardataria

Dopo un’infanzia trascorsa sugli alberi con il naso tra le pagine e una coppia di ciliegie a cavallo dell’orecchio, ho scelto di seguire il profumo della carta rincorrendone la scia fino alle sue origini. La prima città che mi ha accolta e che è rimasta indelebile nel mio cuore e sulla mia pelle è Trieste, […]

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