La musica, oggi, ci accompagna in ogni momento del giorno: alla radio, mentre facciamo compere, nelle nostre cuffiette mentre facciamo sport, nei nostri momenti di relax, nei social con i loro contenuti virali, mentre guidiamo l’auto, mentre passeggiamo, mentre lavoriamo e via seguendo. Possiamo assistere ovunque alle discussioni su quale sia la migliore hit estiva, alle difese e agli attacchi agli artisti e alle loro canzoni, a giudizi più o meno crudeli sulle canzoni che per qualcuno sono “nel cuore”. Insomma, il mercato musicale è saturo, ci accompagna in ogni momento e scandisce passo dopo passo le nostre azioni quotidiane, tanto che è possibile per noi associare un genere musicale o alcune specifiche canzoni a dei momenti della nostra vita. Questa è, per noi, l’assoluta normalità. Eppure, basta aprire i social per sentire molte critiche a questo mondo “pop”. La voce autorevole del filosofo e musicologo T. W. Adorno si scagliò violentemente contro questa industria, individuandone alcuni limiti1. Sono critiche valide?
Il primo punto che Adorno critica è molto vicino a quello che viene costantemente attaccato anche dai professionisti del mondo della conservazione dei beni culturali, come i musicisti2 classici: le “canzonette” interpellerebbero «poche categorie della percezione note fino alla nausea» (T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, 1962) per riprodurre sempre gli stessi schemi, sino a creare una zona comfort di ascolto schiava del pensiero identificante che Adorno vede come convitato di pietra della cultura occidentale. In sostanza, le musiche da radio, come si sente dire, sono tutte identiche tra loro, non hanno spessore musicale, sono banali, abusate, trite. Così, in una battuta, non sono libere: gli autori di queste canzoni non potranno mai esprimere liberamente un contenuto, essendo schiave di suoni e significati nati vecchi; la libertà e la creatività, dice Adorno, dovrebbero essere invece protagoniste della creazione artistica.
Il secondo punto criticato è la mercificazione: la musica sarebbe oggi, per il filosofo, una qualsiasi merce, un bene di consumo, un oggetto adatto solamente all’appagamento di una “fame da orecchio”. La critica adorniana possiede qui la perturbante peculiarità di essere a metà tra estetica ed etica, attaccando infatti anche le abitudini di alcuni ascoltatori: le “canzonette” da radio troverebbero terreno fertile tra gli individui moderni, isolati atomisticamente. Questi ultimi, privi di alfabetizzazione emotiva, non saprebbero divincolarsi dalla forma di vita dedita alla produttività capitalistica e dai tabù della civiltà, cercando attraverso i prodotti culturali una fuga dalla loro condizione di apatia espressiva. Costretti alla costante altalena tra produzione e consumo, si abituerebbero a canalizzare le emozioni attraverso i prodotti e a disporne ogniqualvolta lo desiderino attraverso la loro riproduzione; così, si allontanerebbero però dalla propria interiorità e utilizzerebbero la costante esposizione a delle emozioni standardizzate, massificate e superficiali come mezzo privilegiato per acquisire una narrazione di sé.
Riteniamo che la diagnosi adorniana sia, seppur acuta, decisamente troppo severa. Adorno critica l’arte popolare dal punto di vista della tradizione colta, che vede nell’arte, citando Heidegger, il luogo di incontro con il vero. Tuttavia, un mondo di sola arte così intesa ha dei rischi per l’uomo di eguale entità a quelli espressi per le canzoni di consumo. Richard Shustermann mostra come la vita dedita all’arte colta, quella che ha in mente Adorno, separi dalla vita tanto quanto lo fa la canzonetta3: vivere in una torre d’avorio artistica, che si fregia della superiorità delle proprie opere, allontana dalla capacità di vivere tanto quanto lo fa la superficialità. Un fruitore di sole grandi opere, infatti, che serba astio verso la cultura popolare, si potrebbe trovare a vivere delle emozioni tanto intellettualizzate e raffinate che hanno da poco a nulla di reale. A nostro avviso, quanto criticato da Adorno è vero solo parzialmente, nella misura in cui la fruizione dei prodotti dell’industria culturale sia fuori controllo e priva di coscienza, come sostiene lo stesso Adorno, anni dopo4; questo dipende però da qualcosa che esula dall’estetica popolare. Il filosofo, inoltre, non considera tutti quei momenti della vita quotidiana dove noi non abbiamo alcun desiderio di trattare con la materia sonora come faremmo con un’opera musicale colta: a volte, l’utilizzo della musica può essere fatto per scopi totalmente differenti da quelli artistici, compresi quelli ricreativi, senza che questo causi alcun problema alla coesistenza della musica colta. Ci chiediamo, dunque, davvero sono solo canzonette?
NOTE
1. Cfr. T.W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino 2002.
2. Non a caso Adorno lo era.
3. Cfr. R. Shustermann, Estetica pragmatista, Mimesis, Milano 2010.
4. Cfr. T.W. Adorno, Culture Industry Reconsidered, in “New German Critique”, n.6, 1975, pp. 12-19.
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