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Riflessioni circa scrittura ed architettura: del senso, dello spazio

Victor Hugo era molto appassionato di architettura tanto che definiva quest’arte “regina”; era più di tutto attratto dalle città medievali poiché ne percepiva l’unità, la forza interna, l’ “organicità” medievale, che era ai suoi occhi un ideale perduto.
C’è un intero capitolo in Notre Dame de Paris, “Paris à vol d’oiseau”, che esprime perfettamente l’intuizione di questo attento scrittore: «Non era soltanto una bella città; era una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medio Evo, una cronaca di pietra».
Nel capitolo “Ceci tuera Cela”, Victor Hugo andò ancora oltre, sviluppando una vera e propria filosofia dell’architettura.
Le poche pagine in cui paragona l’architettura ad un linguaggio, oltre ad essere illuminanti circa la funzione storica dell’architettura medievale, costituiscono un prezioso monito.
Victor Hugo ha scritto il saggio più illuminante che sia mai stato scritto sull’architettura.

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Le enigmatiche parole dell’arcidiacono, nella loro lucida perentorietà, hanno forse bisogno di essere interpretate. Sicuramente esprimono nel contesto del romanzo il pensiero di un prete, il terrore del sacerdote dinnanzi alla tecnica, alla stampa.
Ma c’è una lettura più profonda che comprende l’osservazione del cambiamento in atto che a noi interessa particolarmente: Victor Hugo aveva capito che l’architettura era un linguaggio e aveva intuito che non si sarebbe più scritto nello stesso modo e con gli stessi mezzi.
La stampa, la nuova arte, stava per detronizzare l’altra, la più antica: l’architettura.
Da un libro di pietra, l’uomo si sarebbe affidato ad un libro di carta per tramandare la sua sapienza ed esperienza.
Dall’origine delle cose fino al secolo XV dell’era cristiana, l’architettura era infatti il gran libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo nei suoi diversi stadi di sviluppo.
I primi monumenti furono massi di pietra, non tagliati, anzi come disse espressamente Mosè, “che il ferro non aveva toccati”.
L’architettura cominciò così a compitare il suo alfabeto, partendo dai rudimenti della sua scrittura: i massi, la pietra alzata dai Celti.
Più tardi si fecero parole, combinando sillabe di granito.
Il dolmen e il cromlech celtici, il tumulo etrusco e il galgal ebraico, sono parole.
I tumuli invece, sono nomi propri.
E poi si fecero interi libri, le tradizioni avevano elaborato dei simboli sotto i quali la nuda pietra andava scomparendo, rivestendosi invece di significato.
Allora l’architettura si sviluppò a pari passo col pensiero umano, fissando tutto quell’universo simbolico fluttuante in forma eterna, visibile e palpabile.

L’idea madre: il verbo, era nella loro forma. Il tempio di Salomone non era la rilegatura del libro santo, era il libro santo stesso.
E così fu fino a Gutemberg, l’architettura rimane la principale scrittura.
Di questa scrittura si possono distinguere due forme storiche: l’architettura di casta, teocratica; e l’architettura “del popolo”, paradossalmente più ricca, e meno consacrata.
Tra le due vi è la differenza che intercorre tra una lingua sacra, rara, dotta e precisamente codificata, dove nessuna parola deve cadere a vuoto e nessuna ricolatura è concessa poiché ha il potere di legare e sciogliere, di fare atto ciò che nomina e dice; è una lingua volgare, quotidiana, funzionale in continua evoluzione e contaminazione con gli eventi.
Nel secolo XV tutto cambia, il pensiero umano scopre un mezzo più duraturo e più facile: le lettere di Gutemberg.
L’invenzione della stampa è la rivoluzione madre: è il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova completamente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra.
Da qui in poi, l’architettura si atrofizza e si denuda; inizia quella meravigliosa decadenza che noi chiamiamo Rinascimento.
A volte le albe e i tramonti si assomigliano.
Con il tramonto dell’architettura, infatti, le altre arti hanno più spazio e iniziano il processo di emancipazione da questa che era sempre stata l’arte tiranna che a sé tutte sottometteva.
L’isolamento ingigantisce ogni cosa: la scultura si fa statuaria, l’iconografia pittura, il canone musica.

Ritornando a Parigi, e al xv secolo bisogna ribadire che era non tanto una bella città, quanto una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medioevo, una vera cronaca di pietra.
Ma quale Parigi l’ha mano a mano sostituita?
La Parigi di oggi è difficile da descrivere e definire, non ha più una fisionomia generale, appare invece come una collezione di elementi eterogenei.
La capitale si estende solo per il numero di case.
Questo ci riconduce ad un altro fondamentale cambio di guardia: il secolo XVIII.
Il Settecento ha ridefinito cosa fosse la città, e l’ha tramutata di sistema di reti e rapporti, ad un agglomerato di cose ed edifici.
Dalla città delle persone e degli scambi, alla città delle strutture.

 

Laura Ghirlandetti

Laura Ghirlandetti, 1983.
Filosofa on the road con base a Milano, teatrante, e cittadina mediamente attiva.
Ha due blog ed un canale You Tube.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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