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Il non-luogo del linguaggio: le parole come atto di identità

Esiste una realtà mutevole – e talvolta relativista – in cui la sovranità appartiene alle parole, uno spazio impensabile: il non-luogo del linguaggio. Il linguista-filosofo Noam Chomsky, riconosciuto come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale1, attribuì al linguaggio una caratteristica nucleare che rende l’essere-nel-mondo, finalmente, umano. Descriviamo il mondo usufruendo di connubi lessicali. Ognuno così percorre la propria vita – a mo’ di tartaruga  – trasportandosi la casa dell’idioletto, ovvero l’intero bagaglio di strutture linguistiche che una persona possiede e adopera; e dall’incontro con l’Altro finisce per definire se stesso e ciò che lo circonda.

Nel non-luogo del linguaggio, l’essere-nel-mondo – come il demiurgo platonico – plasma se stesso; l’uso delle parole diventa un atto di identità. Si fa urgenza la capacità di destreggiarsi nel vortice delle parole e di possederne quante più possibili. La mancanza di una parola di riferimento sfocia immancabilmente in un impasse: fisico, psicologico, sociale. E dal momento in cui si rileva la mancanza che diventa urgenza, la norma necessita di essere interrogata e, in un secondo tempo, aggiornata. Perché si sa, ciò che viene nominato e “cartellinato” si vede meglio.
Ed ecco che si fa strada la posizione di alcuni gruppi di persone – settori del movimento femminista, attivisti LGBTQ+, individui che non si sentono rappresentanti nel binarismo – le cui idee si originano dal concetto secondo cui l’affermazione di un’essenza si traduce in esistenza. Mi identifico, dunque esisto.

L’onomaturgo improvvisato, colui che crea neologismi, tenta di illuminare la ristrettezza della lingua e l’inconveniente provocato. Inizia così a sperimentare un’alternativa o più: asterisco, barra, punto, schwa2. Cerca pertanto di riempire un vuoto, dando forma a un’esistenza: la propria. La sua bandiera è l’inclusione linguistica, in tutte le sue sfaccettature. E se, da un lato, vi è la possibilità di apportare una modifica alla norma linguistica, dall’altro, la lingua la costituiscono i parlanti; i quali – però – talvolta restano arenati nell’abitudine. Ed è così un circolo vizioso, per esempio, le parole: medica, avvocata, sindaca, esse trattengono una nota stonata nel pensiero di molti.

L’onomaturgo improvvisato tuttavia non si arrende. Crede al “discontinuo” – il fatto che una cultura possa cessare di pensare come aveva fatto fino a un dato momento e si mette a pensare diversamente, in altro modo. Diviene così possibile pensare a una realtà in cui la normalizzazione grammaticale e parlata di talune parole renda chiara la rappresentazione del reale e ne affermi la sua totale esistenza. Dopotutto la realtà è immersa in un eterno divenire, e così anche la lingua che la descrive si rinnova continuamente.
L’onomaturgo improvvisato non demorde nella sua impresa poiché conosce il potere delle parole. Attraverso la dinamicità di queste ultime è possibile compiere vere e proprie azioni. Le parole, infatti, non si cristallizzano nel non-luogo del linguaggio, bensì lacerano la tela immaginaria e giungono nel mondo tangibile del reale. La “medica” dichiarando il decesso rompe il silenzio, e il potenziale gatto di Schröedinger abbandona il suo limbo per abbracciare una definita condizione.
L’onomaturgo improvvisato ha così compreso che siamo i soli parlamentari nel non-luogo del linguaggio, ove le parole che scegliamo o non scegliamo di adoperare regnano sovrane.

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. Per grammatica generativo-trasformazionale si intende la grammatica che si sviluppa seguendo la tradizione chomskiana della descrizione linguistica. Chomsky afferma che la grammatica è una competenza mentale posseduta da colui che parla che gli permette di costituire un numero illimitato di frasi.

2. Lo schwa viene definito dalla Treccani come un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono di scarsa sonorità. Cfr. Treccani

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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