Emanuele, Gianpaolo e Giuditta sono tre filosofi accademici. Emanuele si sente al 100% un professore e aderisce con trasporto all’insieme di compiti richiesti dal ruolo: tenere lezioni, fare esami, leggere-scrivere testi, intervenire a conferenze e seminari, partecipare a Consigli e Commissioni vari, ecc. A Gianpaolo, invece, non basta essere un professore: vive il lavoro come – al più – una parte di sé, se non come una distrazione, necessaria, dalle proprie passioni e aspirazioni più profonde: in fondo, vorrebbe mollare tutto per aprirsi un chiringuito. A Giuditta, infine, interessa poco servire la causa istituzionale o diventare chi davvero è; piuttosto, desidera costruire un’immagine di ogni aspetto della propria vita che possa apparire irreprensibile a tutti – come se fosse sottoposta a peer review non solo la sua ricerca, ma anche la sua intera esistenza. Le sue battute in aula sono fatte sapendo che verranno commentate nelle chat tra studenti; le sue e-mail private sono inviate sapendo che possono essere rese pubbliche in ogni momento; i suoi post sui social sono condivisi sapendo che sono commentabili da chiunque, oggi come tra 20 anni; i suoi comportamenti da viaggiatrice evitano di dare l’impressione della turista; e così via.
Emanuele, Gianpaolo e Giuditta esemplificano tre modi di costruire la propria identità, etichettabili come sincerità, autenticità e profilicità1. Essi comportano rispettivamente di aderire con convinzione alla figura sociale (sono una brava professoressa), di esprimere il proprio sé più genuino (sono me stessa) e di apparire bene da ogni lato (do belle immagini di me). Non è semplicemente questione di gusti personali: l’esistenza e l’incidenza di questi modi dipendono da specifiche coordinate sociali e tecnologiche. Se, facilmente, il comportamento di Giuditta ci suona più familiare, è perché noi tutti oggi siamo portati a fare come Chiara Ferragni – volenti o nolenti. Infatti, anche quando non siamo noi a esporci in prima persona alla “piazza anonima” del web, c’è sempre qualcuno che può farlo per noi, e questo cambia il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi.
Per esempio, Threads offre un vasto catalogo di post che commentano, a parole e/o immagini “rubate”, ogni singola mossa di chiunque: Tizio seduto al bar a leggere da solo; Caio in coda alle poste; i discorsi di Sempronio con gli amici sul bus; i DM di Giancoso su Instagram; l’idraulico intervenuto a casa che era un 10-su-10; ecc. Non solo il mio diario privato diventa pubblico (mi metto in vetrina), ma posso diventare parte del diario privato-pubblico di chiunque in qualsiasi momento (sono messo in vetrina). Ne segue un processo di co-valutazione impersonale che può tradursi nella gogna o hating di turno, o comunque comportare quell’ormai tipica sensazione di ansia da sovraesposizione. Il risultato è che, per stabilire chi siamo, ci abituiamo a osservarci attraverso le osservazioni altrui: siamo indotti a identificarci nel nostro brand, guardando a noi stessi attraverso lo sguardo non di qualcuno in specifico (genitore, amico, partner, ecc.), bensì di qualcuno in generale – di chiunque.
A fronte di ciò, la tentazione nostalgica si fa forte, anche pensando all’episodio Nosedive di Black Mirror (S3, E1), ambientato in un mondo distopico in cui le persone valutano a vicenda e in tempo reale ogni interazione che hanno – una sorta di “Identityadvisor” – e gli esiti delle recensioni hanno anche immediato effetto giuridico ed economico. Non era meglio quando bastava essere una brava professoressa, o (in)seguire il proprio Io più profondo, anziché curare la miriade di volti con cui ci presentiamo agli altri? Il dubbio è legittimo, ma la risposta è negativa, per almeno due motivi.
Il primo motivo è che ogni tipologia di identificazione manifesta contraddizioni e paradossi, comportando un conflitto caratteristico. Per metterla in termini psicologici, la sincerità determina un tratto nevrotico (non essere all’altezza della norma prevista dal ruolo), l’autenticità un tratto depressivo (fallire nella ricerca e realizzazione del vero sé) e la profilicità un tratto paranoico (vedere occhi e sentire voci valutanti ovunque). Perché le prime due derive sarebbero preferibili alla terza?
Il secondo motivo è che i modi di identificazione non si sostituiscono, ma si stratificano e integrano, potendo convivere persino nei comportamenti di una medesima persona. Estremizzando, possiamo preparare e servire la colazione alla nostra famiglia con il più sincero dei sorrisi la mattina, dipingere al pomeriggio assecondando il nostro vero Io e postare sui social le foto dell’uscita serale tra amici. Non è meglio poter “essere qualcuno” su più livelli, anziché rimanere vincolati a una sola via?
Insomma, nessuno tra Emanuele, Gianpaolo e Giuditta ha un’identità più vera degli altri e non siamo obbligati a essere soltanto uno dei tre: l’importante è essere criticamente coinvolti dal processo di costruzione di sé, evitando insieme di prenderlo troppo sul serio e di farsi pervadere dalla disillusione. L’identità sarà pure una finzione, ma potremmo davvero vivere senza?
NOTE
1. Seguendo la proposta di H.-G. Moeller, P.J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, Milano-Udine 2022.
[Photo credit Isabella Kronemberg via Unsplash.com]