La prima volta che sono stato allo Yad Vashem, l’impressionante museo-memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme, ero con un gruppo, accompagnato da una guida. Abbiamo attraversato sala dopo sala, nome dopo nome, testimonianza dopo testimonianza, l’agghiacciante storia della Shoà, il massacro studiato e ingegnerizzato di sei milioni di ebrei, civili inermi sterminati dalla folle ideologia nazifascista assieme ad altrettanti appartenenti a razze, gruppi e categorie “indesiderabili” nell’ottica di perfezione ariana. Al termine della visita, davanti ai nostri stomaci aggrovigliati e ai nostri occhi umidi, la guida ha ribadito “È nostro dovere fare memoria, perché questo non succeda ancora”.
La seconda volta che sono stato allo Yad Vashem, invece, ero solo. Sono tornato al memoriale per rendere omaggio alle vittime, e per immergermi più a fondo nei documenti lì conservati, negli scritti, nelle testimonianze. All’uscita mi sono imbattuto in un gruppo di ragazze e ragazzi, americani con doppia cittadinanza, in Israele per il servizio militare. A fare loro da guida c’era un’ufficiale, in procinto di chiudere la visita col discorso che ben ricordavo, ripetuto in inglese. Le parole, però, stavolta erano leggermente diverse: “È nostro dovere fare memoria, perché questo non ci succeda ancora”.
Sembra poca cosa, quel “ci”: una particella pronominale, due lettere appena, eppure il senso dell’intero discorso, e dell’intera esperienza, è cambiato radicalmente. Un messaggio di disperato umanesimo era diventato, riportato ai giovani soldati, un’arma: proteggeteci, non importa a quale costo, perché questo è quello che il mondo vuole fare a noi e ai nostri figli.
Quel “ci” mi è tornato spesso alla mente in questi tragici mesi che ci separano dal 7 ottobre 2023, mesi in cui in seguito al peggiore attentato terroristico mai registrato su suolo israeliano, con 1200 civili uccisi, l’IDF (l’esercito israeliano) ha lanciato un’offensiva di massa verso Gaza, in una crociata contro Hamas che si è rivelata presto per quello che invece è: una manovra militare di stampo colonialista pensata e progettata da anni, che intende portare a compimento un progetto di pulizia etnica radicale e realizzare il sogno dell’estrema destra israeliana di una sola terra “dal fiume (Giordano) al mare”.
Il peso netto delle parole è tornato al centro del dibattito pubblico, una in particolare, ben più pesante e ingombrante di quel “ci”: genocidio.
«Accusare Israele di genocidio è una bestemmia», ha dichiarato la senatrice Liliana Segre, scampata alla Shoà, e più recentemente ha reiterato come la parola sia «piena d’odio». Il punto, però, non è (non dovrebbe essere) l’odio verso l’uccisore, ma la tutela della vittima e la giustizia verso gli uccisi.
Non c’è neanche più alcuna ambiguità di intenti: dopo un’iniziale crociata contro il singolo partito di Hamas e soprattutto le sue propaggini terroristiche, la destra israeliana ammette candidamente di avere piani per lo sgombero forzato dell’intera popolazione palestinese, per l’occupazione della loro terra, per l’ennesima riscrittura dei confini. Mentre ci avviciniamo a quota sessantamila morti palestinesi dall’inizio della “controffensiva” israeliana, mentre vediamo bambini morire di fame nel pieno di una carestia ingegnerizzata, profughi respinti da un campo all’altro, giornalisti e medici massacrati sul campo, ospedali, scuole e luoghi di culto presi di mira e abbattuti, la parola “genocidio” diventa sempre più pesante, più ingombrante. Più vera.
Quel “ci” segna una linea di demarcazione potentissima. Senza, l’appello dello Yad Vashem è un monito contro ogni genocidio, e si erge a difesa di ebrei e rom, di uiguri e rohingya, di tutsi e armeni, cambogiani e curdi, bosgnacchi e palestinesi. Con, anche il memoriale viene storpiato in un triste monumento identitario, che fornisce un’impossibile giustificazione morale a un popolo per commettere le peggiori atrocità contro ogni altro.
NOTE
[Photo credit Mohammed Ibrahim via Unsplash.com]