In una società radicalmente edonistica come quella in cui viviamo, in cui ogni nostra esperienza, reale o virtuale, sembra dover essere finalizzata al soddisfacimento di piaceri sempre diversi e sempre più intensi, la lettura del Filebo di Platone urge in un modo non banale né scontato. Chi si sia interrogato sulla necessità di imporsi un limite, una misura nella fruizione dei propri godimenti, fisici e spirituali, e al contempo abbia trovato che la vera ricchezza e il vero bene, filosoficamente parlando, sono da collocare in un altro genere di attività, più nobile, considererà il Filebo una preziosa “bussola etica” per mettere in discussione e riorientare i propri principi.
Opera della vecchiaia dell’autore, questo dialogo affronta tre temi cardinali: la definizione della vita buona, la questione del Bene, le caratteristiche della vita divina. L’intenzione di Platone è quella di difendere una tesi ben precisa: la vita buona non è né tutta volta al piacere né tutta volta alla conoscenza, bensì è una mescolanza di entrambi gli elementi. In effetti, risulta chiaro a tutti – dice Socrate – che, se da una parte, nessuno sceglierebbe una vita di solo piacere senza neppure avere la coscienza di godere (il caso delle bestie), dall’altra, nessuno desidererebbe una conoscenza priva anche del piacere che le è proprio (cfr. 20a – 23c). Dunque, chiunque accetterebbe facilmente una vita che sia mista di entrambi. Ma il senso delle affermazioni socratiche si spinge ben oltre questa semplice constatazione.
Per comprendere adeguatamente il problema posto dal testo, bisogna anzitutto fare riferimento a quei filosofi, delle cui tesi si fa portavoce proprio Filebo, che identificavano il bene con il piacere, facendone, agli occhi di Platone, un’unica idea indistinta. Aristippo, per esempio, pensava che il piacere, cioè il bene, fosse un costante divenire: il godimento di qualcosa non è mai stabile, ma si presenta sempre come un processo, un transitare attraverso una molteplicità di stati piacevoli, diversi e cangianti. Ma come può esserci bene – argomenta Platone – in ciò che non permane, che non rappresenta un possesso sicuro, una ricchezza acquisita e durevole? Il divenire, il mutamento e la molteplicità sono piuttosto un male, poiché appartengono al genere dell’Illimitato, del più e del meno, ovvero di ciò che non è definibile, misurabile, e che di conseguenza sfugge in continuazione: possiamo ben capire che ciò che sfugge, poi, non appaga, o appaga solo temporaneamente e in modo fallace. Così si esprime Socrate, rivolgendosi a Protarco: «Infatti, la molteplicità delle realtà prodotte nel terzo genere, mio ammirevole amico, ti ha sconcertato» (26c-d). Di questo genere, pertanto, sono i piaceri. Chiaramente, Platone non si esime dal distinguere vari tipi di piacere: del corpo e dell’anima, veri e falsi, puri e impuri. In ognuno di questi, tuttavia, non si trova il bene propriamente detto.
Ecco perché, immediatamente dopo, Socrate afferma: «Invece, il limite non presenta molteplici aspetti, né eravamo infastiditi dal fatto che fosse uno per natura» (26d). Se nel genere dell’Illimitato va collocato il male (morale), insieme alla mancanza di proporzione, alle sregolatezze, agli eccessi e ai difetti, ne consegue che il bene, la misura e la proporzione non possono che trovarsi nel genere del Limite. Inoltre, così come di piaceri ve ne sono molteplici, anche il Bene, pur essendo un’idea unica, ammette una pluralità di declinazioni: tra le più rilevanti, compaiono la bellezza, la verità e la misura (cfr. 65b). E alla domanda quale tra i due, piacere e intelligenza, si avvicini di più alla bellezza, alla verità e alla misura, Protarco risponde senza esitare: «Il piacere è, proverbialmente, il più bugiardo di tutti […] l’intelligenza, invece, o è la stessa cosa che la verità, o è quanto c’è di più simile a lei e di più vero» (65d).
Proprio la conoscenza, che porta ad una vita giusta e quasi divina, è da considerarsi l’elemento prioritario, il più puro e il migliore. Tuttavia, essa non è ancora il Bene in sé, ma piuttosto uno strumento dialettico che lo ricerca e lo indaga. In tal modo, il puro pensiero, la razionalità fine a se stessa, presentata come l’altro estremo, lascia il posto ad una più equilibrata commistione, quella tra illimitato e limite. È così che questi producono un terzo genere, quello delle cose miste, al quale appartiene in ultima analisi la vita buona. In altri termini, Platone ci invita a rispettare la celebre sentenza delfica “nulla di troppo”, cifra emblematica della cultura ellenica, secondo la quale non esistono né bontà né bellezza laddove manca il giusto mezzo. Com’è noto, Aristotele erediterà questa grande concezione, facendone il pilastro della sua etica.
NOTE
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