«Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?” I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?» (D.F. Wallace, Questa è l’acqua, Giulio Einaudi Editore, Torino 2009, p. 143).
Così inizia un celebre discorso di David Foster Wallace, che, a mio parere, offre un’immagine chiara e potente della nostra incapacità di riconoscere il contesto che ci circonda. Così come il mare può diventare impercettibile per chi ne è immerso, similmente, alcuni fenomeni culturali ampiamente diffusi, tendono, per certi aspetti, a invisibilizzarsi: tutti ne riconoscono l’esistenza quando si manifestano nella loro forma più estrema, ma pochi si rendono conto delle dinamiche più sottili e normalizzate che li mantengono in vita. Come l’acqua per i pesci, queste strutture permeano la nostra quotidianità, nei gesti, nelle parole, nelle consuetudini che passano inosservate perché sono parte integrante del modo in cui la società è costruita. Come quando, per fare un esempio comune, la donna si occupa automaticamente delle faccende domestiche o della cura dei figli, mentre il suo compagno considera il proprio apporto un aiuto occasionale: questa divisione non viene percepita come un’ingiustizia, ma come una semplice abitudine. O come quando, in una discussione accesa, l’insulto rivolto a una persona appartenente a un gruppo discriminato, si trasforma in un riferimento alla sua etnia o al genere: questa scelta verbale non sembra grave quanto un’aggressione fisica, eppure contribuisce a mantenere un certo clima culturale.
Da notare come, spesso, le persone adottino un’unità di misura favorevole a sé stesse, per evitare di riconoscersi come parte del problema. Quando ad esempio si affrontano temi come la violenza di genere, il razzismo, il patriarcato, l’omofobia, molte persone si vedono riflesse nei casi più gravi, finendo, spesso, per dire di sé stesse: “io non sono violento”, “io non discrimino”, “io non uccido”. Tuttavia, un fenomeno culturale esiste e si perpetua attraverso la maggioranza dei comportamenti e delle credenze che lo alimentano. La normalizzazione di certe abitudini, del linguaggio di discriminazione e delle esclusioni silenziose contribuisce alla costruzione di un terreno fertile per forme più evidenti di oppressione. Il problema non sta, quindi, solo nei gesti estremi, ma nel terreno che li rende possibili. La cultura sessista e patriarcale esiste perché, ogni giorno, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro e nelle rappresentazioni mediatiche, si perpetua l’idea che le donne abbiano ruoli di supporto. Allo stesso modo, il razzismo persiste perché le battute di discriminazione non vengono contrastate, e perché la distribuzione delle opportunità continua a favorire chi già ha potere.
Esattamente come i pesci di Wallace che non sanno cosa sia l’acqua, molte persone vivono immerse in una cultura che le condiziona senza che se ne rendano conto, finché qualcuno non fa loro notare cosa stanno realmente respirando. La persistenza di determinate abitudini culturali e l’uso di un linguaggio apparentemente innocuo contribuiscono alla normalizzazione di dinamiche discriminatorie radicate nella società. Espressioni stereotipate, battute che veicolano pregiudizi e termini utilizzati senza riflessione critica sono spesso percepiti come inoffensivi, e chi li impiega tende a dissociarsi da qualsiasi forma di discriminazione strutturata. Tuttavia, tali pratiche contribuiscono a consolidare un contesto sociale in cui etichettare e marginalizzare determinati gruppi diventa parte integrante della quotidianità, riducendo la percezione della loro gravità. La normalizzazione di un linguaggio discriminatorio ha implicazioni dirette sulla distribuzione delle opportunità e sulla rappresentazione nei ruoli di potere. La percezione di determinati gruppi come meno meritevoli o capaci si traduce in una loro sistematica sottorappresentazione nelle posizioni decisionali e nella produzione storica e culturale. Parallelamente, la narrazione collettiva spesso colloca questi gruppi in ruoli marginalizzati, alimentando un divario strutturale che impedisce loro di accedere a posizioni di prestigio o di autorevolezza. Tale processo contribuisce a definire un ordine sociale in cui la disparità viene non solo accettata, ma interiorizzata come parte di un sistema immutabile.
Al livello più estremo, la sistematica esclusione e la continua delegittimazione di un gruppo sociale possono favorire un contesto in cui la violenza nei loro confronti appare giustificata o minimizzata. L’emarginazione prolungata rende meno percepibili le ingiustizie subite, riducendo la reazione pubblica di fronte a forme di aggressione diretta. La svalutazione della dignità e del valore delle persone discriminate contribuisce così all’escalation di fenomeni di violenza fisica e sociale, rafforzando un circolo di oppressione difficile da interrompere. Per contrastare queste dinamiche, è necessario un cambio di prospettiva: non basta prendere le distanze dagli atti di discriminazione più evidenti, ma occorre riconoscere il ruolo che anche le abitudini quotidiane e la comunicazione informale assumono nel consolidamento di tali sistemi.
NOTE
[Photo credit Kier in Sight Archives via Unsplash.com]
OrlandO
È uno street artist attivo a livello nazionale, di cui non si conosce la vera identità. Il suo pseudonimo è ispirato al protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf.