A maggio e giugno 2025 è comparsa una campagna marketing molto aggressiva per la serie tv Squid Game, in particolare per la sua terza stagione. Non solo abbiamo visto la pubblicità dei nuovi episodi, abbiamo anche visto comparire moltissimo merchandise: il giocattolo in regalo nella catena fast food, la borraccia, il vestiario, cibo e bevande a tema, merendine e persino, sembra assurdo, la moka da caffè di una delle più note marche italiane. Più o meno chiunque sarà giunto alla conclusione che è l’ennesimo tentativo, da parte un po’ di tutti, di capitalizzare grazie a un fenomeno virale come quello della famosa serie coreana; tuttavia, si potrebbe ritenere che la serie in generale possa essere sottoposta a uno sguardo filosofico che vada più a fondo di questa prima conclusione.
È necessario introdurci almeno all’antefatto della serie, per poterci poi riflettere sopra. La storia proposta è quella di alcuni giocatori che tentano di superare sei giochi organizzati da un uomo misterioso. La caratteristica principale della serie è il fatto che, quando i partecipanti perdono a uno dei sei giochi, muoiono oppure vengono uccisi e la loro morte comporta la crescita del premio finale in denaro. I giocatori provengono dai margini della società: il più delle volte sono indebitati, disperati o hanno perso la motivazione di vivere; gli organizzatori sfruttano così la loro volontà di riscatto attraverso il premio che gli permetterebbe, dunque, di ricominciare da zero nella loro vita fuori dal gioco.
Il nostro interesse è di riflettere sul fenomeno Squid Game attraverso lo sguardo critico di Mark Fisher, che ha introdotto il concetto di realismo capitalista, definendolo come: «La sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne una alternativa coerente» (M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero Editions, Roma, 2017, p. 26). All’interno della serie vediamo degli individui che si muovono nella loro vita quotidiana, schiacciati da una società iper-capitalistica come quella della Corea del Sud, tentando, attraverso la vincita del denaro, di uscire dalla loro condizione; possiamo dire, dunque, che la narrazione della serie dipende unicamente da un contesto reale di capitalismo sfrenato. Ci sembra, perciò, che la serie e il fenomeno a essa connesso siano la perfetta realizzazione la tesi del realismo capitalista: tutto ruota intorno a esso, tantoché non siamo nemmeno capaci di immaginare alterative coerenti, nemmeno nei prodotti di intrattenimento. La trama della serie, l’immaginario a essa connesso, la sua modalità di marketing, la modalità con la quale è scritto il copione e il successo avuto dalla serie dipendono dal fatto che essa narra nello specifico la nostra forma economica e che noi fatichiamo sempre più a separarcene.
E se questa o un’altra serie volesse criticarlo, in realtà, il capitalismo? Fisher riporta l’attenzione anche su un altro fenomeno, che può accadere in questi casi, attraverso Wall-e, celebre film della Pixar (cfr. M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero Editions, Roma, 2017, p. 43-49). In quel caso, assistiamo a una società che ha abusato delle risorse sulla terra sino a distruggerla, ritrovandosi costretta a fuggire su delle grandi navi spaziali, dove la vita si riassume, sostanzialmente, nel puro e costante consumo. Fisher nota, in questo caso, una caratteristica aggiuntiva: la pellicola tenta, tutto sommato, di criticare le conseguenze della nostra forma economica; ma questa sua volontà non è altro che, in realtà, una mossa del capitalismo stesso, che include al suo interno le critiche su di sé. Attraverso la sua visione, il film performa l’anti-capitalismo per noi, che lo osserviamo comodamente seduti da una sedia, trasformando anch’esso nel comodo contenuto da noi fruito e, conseguentemente, disinnescandolo.
A questo punto, non può non venire in mente Adorno e il fatto che i prodotti dell’industria culturale sfruttano a volte solo alcune categorie narrative già conosciute, fornendole di una veste nuova e basandosi solo sull’impatto su schermo, privando la narrazione di qualsiasi profondità espressiva1. Nulla ci vieta di goderne come prodotti di intrattenimento, ma, come dice Fisher al termine del suo libro, non possiamo non sperare perlomeno in una riapertura di prospettive del nostro immaginario comune: «da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile» (M. Fisher, Realismo Capitalista, cit., p. 152).
NOTE
1. Cfr. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino, 1971, p. 32.
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