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Il cinema oggi: la comunicazione che va oltre i dialoghi

Quando si parla di cinema, si parla di comunicazione a 360°: nei film, la combinazione di immagini, parole e suoni si traduce in un linguaggio visivo e sonoro ricco di significati che lo spettatore percepisce ed assimila, quasi automaticamente, scena dopo scena.
Ma cosa succede quando una pellicola, che è essa stessa un tipo linguaggio, cerca di raccontarne un altro?

A questo proposito possiamo citare tre esempi molto diversi tra loro ma uniti da un fil rouge comune: uno dei film più celebri di Denis Villeneuve Arrival, il film vincitore di 4 premi Oscar nel 2017 La forma dell’acqua, regia di Guillermo Del Toro e parte della filmografia di Terrence Malick che va dal capolavoro del 2011 The Tree of Life alle ultime uscite.

In Arrival, Villeneuve immagina l’arrivo sulla terra di creature non identificate che si esprimono in modo per noi quasi inconcepibile: una lingua grafica circolare, non lineare come la nostra, che non ha inizio né fine. Lo schema cognitivo che sta alla base della lingua è una diversa concezione del tempo, che per le creature è circolare, distribuito lungo un eterno presente, non cronologico come quello umano che è invece scandito rigidamente da un passato, un presente e un futuro. Nel film, il team di ricerca capisce progressivamente che per comunicare con i nuovi arrivati l’uomo deve cambiare il suo modo di pensare, aprire la mente a una visione del tempo, dello spazio e della lingua alternativa a quella che ha sempre conosciuto.

Ne La forma dell’acqua la trama ha uno sfondo meno filosofico e più sentimentale, ma comunque degna di nota: una donna delle pulizie affetta da mutismo si innamora di una creatura catturata e destinata ad essere vivisezionata dagli scienziati del laboratorio per cui lavora. Oltre alla quasi immediata intesa che si crea tra i due, la protagonista insegna alla creatura a comunicare attraverso il linguaggio dei segni e utilizza la musica per esprimere meglio le sue emozioni. Il regista mette in scena un nuovo tipo di amore, costruito secondo un modo di comunicare diverso, dove prevalgono quelle che in psicologia sono definite carezze1 non verbali, condizionate e non: si tratta di gesti (a volte) semplici come uno sguardo o un sorriso che noi facciamo (in)consciamente quando apprezziamo l’altro per quello che è nella sua interezza o per le sue singole qualità.

Nelle pellicole di Terrence Malick si prende una direzione totalmente diversa e si viene immersi in un universo parallelo a quello della comunicazione verbale, in cui le battute sono sostituite dagli sguardi e i dialoghi non sono fatti di parole ma di risate, piante, sospiri, urla e silenzi carichi di significato. Questo nuovo tipo di “copione” viene messo in risalto da una regia molto particolare: Malick e gli attori hanno infatti spiegato che raramente le scene vengono girate più volte perché l’obiettivo è catturare l’immediatezza e l’autenticità dei gesti, come se stessero filmando scene di vita di tutti i giorni. Inoltre, agli attori non devono seguire una scaletta specifica durante le riprese; al contrario, viene dato loro solo un’idea generale di quello che sarà il proseguire della storia, in modo da rendere la loro recitazione la più veritiera possibile.

Questi casi appena citati, insieme a molti altri, ci spingono a intendere la comunicazione come un concetto malleabile ed eterogeneo e a separarlo dall’apparente dipendenza dalla parola: prima di essere linguaggio gli uomini sono gesti, sguardi, espressioni, istinti ed impulsi. Forse è proprio questo che Malick vuol fare trasparire attraverso inquadrature che indugiano sempre qualche secondo in più sulle espressioni dei volti o sui movimenti del corpo: cogliere quei messaggi che si riescono a percepire solo attraverso le forme più sottili e pure di comunicazione, quelle non espresse a parole.

A un livello ancora più “profondo”, comunicare significa interpretare. Le parole con cui descriviamo un paesaggio o raccontiamo una storia rispecchiano come abbiamo recepito gli stimoli e come li abbiamo filtrati attraverso il nostro personale bagaglio di conoscenze precedenti, che è sempre e comunque diverso la quello di qualsiasi altra persona.2 Anche quando pensiamo di essere completamente imparziali, in realtà stiamo sempre parlando secondo il nostro punto di vista; quando stiamo zitti perché non abbiamo niente da dire, in realtà stiamo inviando messaggi. Non per nulla il primo assioma della comunicazione secondo Watzlawick recita: è impossibile non comunicare.3

 

Beatrice Pezzella

 

NOTE:
1. E. Berne, A che gioco giochiamo, Milano, Bompiani, 2013
2. M. Groppo, V. Ornaghi, I. Grazzani, L. Carrubba, La psicologia culturale di Bruner. Aspetti teorici ed empirici, Cortina Raffaello, 1999
3. D. Di Lauro, Manuale di comunicazione assertiva, Xenia, 2010

[Immagine tratta da Pexels.com]
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