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Juventus VS Fortnite: prendere l’arte dei videogiochi sul serio

“Uno spettro si aggira per il mondo – lo spettro degli e-sport”. Forse sei tra chi pensa che se già non bisogna prendere il gioco troppo sul serio, figuriamoci un e-gioco, ancor più lontano da qualsiasi vera realtà. Com’è allora che gli sport “veri” stanno cominciando a rincorrere quelli “falsi”, con l’intento apparente di voler riprodurre nella “realtà vera” la variabilità e la partecipabilità in real time tipiche della “realtà finta”? Prendi la Formula E, dove si assegnano bonus di potenza ai piloti sulla base dei voti ricevuti dagli “spettatori” durante la gara e ci sono corsie che danno il turbo passandoci sopra (stile TrackMania&C.). O prendi il progetto della controversa Superlega di calcio: «creare una competizione che simuli ciò che i più giovani fanno sulle piattaforme digitali», per «fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty».

Roba seria solo per i classici nerd e chi vuole catturarne soldi e attenzione? Segno di una dilagante gamification di ogni aspetto della vita che ci allontana inesorabilmente dalla realtà? Indice di quanto ah-signora-mia-ma-dove-stiamo-andando-a-finire? Vallo a dire per esempio agli artisti svizzeri del collettivo “Etoy” (nato nel 1994): trascinati in tribunale dall’azienda eToys.com (nata nel 1997), che lamentava un’eccessiva somiglianza nei nomi, risposero producendo e diffondendo il gioco multiplayer online Toywar a fine 1999, con l’esito di rendere volatile la quotazione in borsa della multinazionale. Conclusione? eToys fa marcia indietro l’anno successivo, scusandosi e pagando le spese legali. Alla faccia del gioco e della finzione!

È ora di essere seri: gli atti videoludici nei videogiochi non mettono semplicemente tra parentesi la realtà, anzi offrono l’opportunità di agire realmente e persino di trasformare il nostro senso dell’agire (nel bene e nel male, come sempre). Il gaming porta persino agli estremi la serietà tipica del gioco: i videogiochi possono cambiare il nostro atteggiamento e le nostre convinzioni rispetto al mondo, aprendoci con la simulazione scenari “fittizi” che interrogano il modo in cui le cose vanno o dovrebbero andare in una maniera radicalmente nuova e più incisiva rispetto a quanto finora sperimentato. In questo, i videogiochi sono un’arte a tutti gli effetti: offrono uno spazio dove esercitare liberamente la nostra naturale attitudine alla sperimentazione fine a se stessa e a prendere seriamente l’illusione in quanto tale.

Chi tuttora crede che i videogiochi non siano arte, non li conosce abbastanza e/o non ha mai ben compreso come funzioni l’arte: nessuna colpa, semplici fatti. Né, ovviamente, siamo tutti tenuti allo stesso modo a conoscere e apprezzare ogni forma d’arte; ma va guardata in faccia la realtà: se ogni epoca ha una o più arti caratteristiche, i videogiochi sono la forma d’arte tipica dell’era digitale, sia per la materia (sono puri artefatti computazionali) sia per la forma (sono strutturalmente interattivi). Partiamo dalla materia: il David materializza i processi di simulazione intra-mentali di Michelangelo, mentre Dark Souls dà corso a vere e proprie simulazioni extra-mentali dotate di significato intrinseco e vita propria. Passiamo alla forma: La Gioconda senza spettatore un senso lo ha, ma Uncharted senza giocatore no; lo storytelling di Harry Potter è altra cosa dallo storydoing di The Last of Us. ll videogame è insomma pura animazione.

Tutta roba irreale dunque? Per nulla! Non solo i videogiochi possono potenziare e sviluppare le facoltà mentali: estendono e raffinano il senso di possibilità; sollecitano la capacità di porre e risolvere problemi; esercitano a scoprire significati e usi nascosti; insegnano a muoversi entro un set di vincoli; riorganizzano la percezione; ristrutturano l’emotività; rinvigoriscono lo spirito critico; stimolano la riflessione; ecc. Il punto è che con i videogame tutto ciò dipende dal fatto che essi generano una sorta di “archivio delle azioni” in costante aggiornamento. Come un dipinto conserva sguardi, una canzone ascolti, una novella storie, e via discorrendo, facendoci rivivere immagini visive, sonore, narrative, ecc. provenienti originariamente da altre menti, così un videogame registra possibili attività, facendoci scoprire, condividere, valutare, e così via modi di decidere, comportarci, porsi, ecc. disegnati e/o agiti da altri, diversi da quelli testabili nella vita quotidiana, ma potenzialmente “ritrasferibili” in essa. Come nel caso di Naska, passato dalle gare motoristiche su simulatore a quelle su strada, o di Verstappen che dichiara di preparare i sorpassi di F1 ai videogiochi.

Che dici, ne abbiamo abbastanza per prendere l’arte videoludica sul serio?

 

 

NOTE

1. Tre testi per approfondire: I. Bogost, Persuasive Games: The Expressive Power of Videogames, MIT Press, Cambridge 2007; A.R. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, Sossella, Roma 2022; C. Thi Nguyen, Games: Agency as Art, Oxford University Press, Oxford 2020.

[immagine tratta da Unsplash]

Giacomo Pezzano

Radical Candor, concettofilo, post-ironico

Se avessi un motto, sarebbe qualcosa come: “non conoscere le idee, ma avere idee!”. Faccio il ricercatore all’Università di Torino e negli anni mi sono occupato soprattutto di antropologia filosofica, filosofia critica e ontologia, cercando di tenere insieme il rigore della ricerca e il mordente della comunicazione. Ho scritto – in ordine sparso – post, […]

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