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Inclusività: riconoscerne il privilegio e il merito

Vi siete mai soffermati sulla parola o sul concetto di inclusività?

Per comprenderlo al meglio è necessario fare un passo indietro e considerare il concetto di esclusione.
Generalmente si ritiene che tale fenomeno sia una prerogativa della maggioranza; in realtà si tratta di un processo che viene attuato da qualsiasi gruppo nei confronti di chi appartiene ad un altro. Il motivo risiede nel processo mentale di discriminazione, letteralmente differenziare. Secondo la Treccani: «distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone» ma anche «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi». È un processo in parte inconscio e legato a meccanismi biologici in cui si tende a preferire e proteggere membri dello stesso gruppo, per massimizzare la trasmissione genetica, la quale, tuttavia, necessita di una certa variabilità e di conseguenza concorre anche una componente attrattiva.
Ciò è alla base della sopravvivenza, tuttavia la razionalità del nostro pensiero può portarci oltre.

L’inclusività, invece, sempre secondo la Treccani, viene definita come «capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi o stereotipi». Senza ombra di dubbio l’accezione di questa parola – che negli ultimi anni è costantemente al centro del nostro interesse, per rimediare forse ad un’improvvisa consapevolezza e senso di colpa di ciò che abbiamo perpetrato per anni – risuona in positivo. Ma è davvero un processo paritario? È innegabile come emerga un’asimmetria di potere tra chi agisce, chi si reputa “normale”, e chi subisce l’azione, chi è additato come “diverso”.

Dunque certi diritti alle “minoranze” non spettano fin dalla nascita, ma vengono concessi loro dalla “maggioranza”, la quale ha il potere di scegliere quale gruppo meriti dei diritti e che tipo di diritti. Ne segue una coesistenza di “minoranze” ritenute più meritevoli di considerazione e inclusione di altre. Un esempio si trova nella distinzione tra “poveri meritevoli e non”, i primi – famiglie, anziani e lavoratori – ricevono maggior supporto dallo Stato e dal resto della società, mentre i secondi – giovani e migranti – subiscono solamente disprezzo e sono ritenuti responsabili della propria condizione. Altro esempio sta in chi merita il diritto alla genitorialità: inteso sia come diritto ad avere un genitore, e il suo riconoscimento come tale da parte delle istituzioni, sia come diritto ad essere genitore. Il ricorso alle adozioni e alle procedure di PMA non sono appannaggio di tutti. Ma gli esempi di gruppi minoritari esclusi da diritti o dalla struttura sociale, sono da sempre molteplici.

Alla luce di ciò è necessario mettere in discussione l’idea di inclusività portata avanti fino ad ora e il pensiero che questo sia il punto di arrivo per l’uguaglianza. Si potrebbe infatti ritenere che sia più un punto di transizione, una tappa di un percorso molto più lungo, dove è necessario soffermarsi per prendere consapevolezza degli squilibri di potere. Inoltre, scendendo dal gradino del privilegio, si comprende il vero valore della diversità: intesa come sinonimo di varietà, è la variabilità dell’esperienza umana a costituire la natura, non quella “normalità” di recente costruzione dell’uomo, che a questo punto non si rivela altro che una sottocategoria della diversità stessa.

La tappa successiva di questo cammino potrebbe coincidere con la proposta di Fabrizio Acanfora, che nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, parla di convivenza delle diversità. Questa azione, effettivamente, si spoglia dell’asimmetria di potere su cui ci siamo concentrati e al contempo si riempie di reciprocità. Tuttavia, per quanto io ritenga meravigliosa questa espressione, sono consapevole della resistenza che si incontra nel mettere in discussione il linguaggio. Perciò sarebbe sufficiente, al momento, rivalutare la comprensione delle parole già in uso nel nostro vocabolario, come diversità e inclusività.

Una strategia, per comprendere meglio la diversità-variabilità e per attribuirgli un nuovo significato, potrebbe essere la teoria dell’intersezionalità, la quale descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni o oppressioni. Gli assi identitari di ognuno di noi sono molteplici e l’incrocio tra questi genera l’autenticità che contraddistingue ogni persona: ciò sottolinea come l’idea di una maggioranza dominante, caratterizzata da un criterio di normalità, non sia che un costrutto sociale e che la società è un puzzle formato da un’infinità di tasselli differenti incastrati tra di loro. Inoltre, in questo modo sarebbe più facile anche guardare con occhi diversi alla parola inclusività e abbracciare l’idea di Vera Gheno, secondo la quale «Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza» (V. Gheno, Chiamami così, 2022).

 

 

Gaia Giulia Genova
Nata a Monza nel 1997, studia Servizio sociale all’università di Genova. Appassionata di gender studies e amante delle piante e dell’arte. Avida lettrice, per lei, come dice bell hooks, la teoria rappresenta un luogo di cura e guarigione.

NOTE: photo credits Helena Lopes via Unsplash

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