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Pigrizia: l’ultima forma di resistenza

In un’epoca in cui le rivoluzioni sono solo materia di studio per ragazzi annoiati, sempre più rapiti dalle promesse del mondo virtuale, rimane tuttavia un’ultima freccia al nostro arco: la pigrizia. Ci sono tanti modi di essere pigri, e nel senso comune nessuno di questi può essere una virtù. Ma anche solo per ciò direi che la pigrizia è in grado di rappresentare una controtendenza significativa, l’esigenza di non adeguarsi acriticamente al sistema, eretto intorno a noi, nonostante noi.

Eppure, pigrizia non è solo non aver voglia di fare, poltrire, evitare ogni fatica, vi è anche una pigrizia nobile, ragionata, una pigrizia come forma di resistenza critica e dissidenza dal pensiero dominante. Un modo di essere che mette in discussione la scala di valori inculcatici sin dalla nascita, al vertice della quale si erge indisturbato il lavoro, mezzo – anche se sempre più fine in sé – per raggiungere la piena realizzazione esistenziale, ovvero denaro, proprietà, potere, rispetto, posizione sociale, famiglia (che puoi mantenere solo grazie al lavoro).

Non c’è nulla di sbagliato nel lavorare, anzi, è grazie al lavoro che nei secoli abbiamo considerevolmente migliorato la nostra condizione; di sbagliato c’è l’accettazione comune del lavoro come dimensione unica delle nostre esistenze. Unica, perché, se avete un lavoro, tutte le altre vostre attività saranno organizzate necessariamente in funzione di esso. Avete una macchina per andare al lavoro, affrontate quotidianamente il traffico per recarvi al lavoro, fate la spesa nel weekend perché durante la settimana tornate tardi dal lavoro, vi riposate nel giorno libero per essere poi in piena forma per tornare al lavoro, e lo stesso vale per il riposare la notte – per chi ci riesce. Lavorate otto, dieci, dodici ore al giorno senza esagerare, e per voi non rimane nulla, se non la coscienza a posto perché così vi è stato detto di pensare: se non lavori sei un lavativo, un parassita. Quindi non soltanto inutile, ma addirittura un peso per la collettività. Non lavorare, non sacrificare la maggior parte del nostro tempo al lavoro è semplicemente una colpa. Max Weber riconduce questo primato del fare al cambiamento socio-culturale apportato nel Cinquecento dalla Riforma protestante, per cui il lavoro e il relativo profitto, accumulato e non goduto, erano considerati segno della grazia divina. Sarà davvero colpa dei calvinisti? Fatto sta che il capitalismo contemporaneo ci costringe tutti a lavorare senza sosta.

Nessuno ha mai pensato che in tutto questo possa esserci qualcosa che non va? Ovviamente sì, fini pensatori hanno messo in discussione quella che è a tutti gli effetti una schiavitù salariata: Karl Marx, Paul Lafargue, Bertrand Russell, gli anarchici. E oggi? Nonostante gli sforzi di questi uomini continuiamo a sprofondare sempre più nel buco nero del lavoro, attività che pervade ogni ambito della nostra esistenza. Essere umano e lavoro sono la stessa cosa, noi siamo il nostro lavoro, siamo identificati con esso, a discapito di tutto il resto, ovviamente. Non abbiamo più tempo, la cosa più preziosa concessaci da questa breve esistenza, e non abbiamo più nemmeno l’energia per opporci, risucchiati come siamo dalle nostre occupazioni. Viviamo senza battere ciglio in un mondo in cui vige il culto del profitto e del consumo, dell’apparenza e del potere, e soprattutto l’imperativo del lavoro come dovere sociale imprescindibile, abnegazione totale nei confronti del sistema che non fa altro che alimentarsi con il nostro sudore. Fare, fare, fare. Il male è il non fare.

Non vi è quasi più rivolta, perché le nostre catene, come direbbe il Jean-Jacques Rousseau critico dei costumi del suo tempo, sono magistralmente rivestite di ghirlande e fiori che, nel nostro caso, ci fanno sognare la felicità attraverso il lavoro. Perché altrimenti come fai a permetterti il suv e la vacanza ai Caraibi? È questo il punto: la nostra idea di felicità. Il paradigma di felicità oggi dominante è questo: avere, a scapito dell’essere. Ma non tutti sono felici in questo modo; vi sono infiniti modi di essere felici, uno dei quali è avere meno e essere di più. Poter vivere le proprie passioni, i propri interessi, i propri amici. Avere tempo, per leggere, passeggiare, discutere, studiare, giocare. E non che questo debba necessariamente escludere il lavoro. Se tutti smettessimo di lavorare – è superfluo spiegarne il motivo – non risolveremmo nulla. Ma ognuno dovrebbe essere libero di svolgere il lavoro per il quale è incline, e soprattutto lavorare meno! Finirla con questa dimensione unica che è diventato per noi il lavoro. Poter esprimere la nostra persona in tutti i modi nei quali siamo vivi. Più essere, meno avere. Più libertà, meno costrizione. Più vita, meno colpa.

Ed ecco che ci viene incontro la pigrizia. Pigrizia come resistenza critica a un sistema che non ci rappresenta, perlomeno non tutti. I pigri – per Henri Michaux donne e uomini la cui anima ama nuotare –, rivalutando la pigrizia come modo di essere dissidente, in rivolta contro il diktat del lavoro come unico mezzo di realizzazione personale, sono gli eroi dei nostri giorni, gli unici che hanno il coraggio di mettere in discussione lo stato delle cose. La loro resistenza è passiva, ma attraverso le energie sottratte al lavoro per fare altro, fanno respirare il mondo.   

Rivalutare dunque il valore esistenziale e corrosivo della pigrizia è il nostro scopo. Mettere in luce il problema, aprire il dibattito, stuzzicare le coscienze. Attraverso il pensiero critico spronare tutti a pensare liberamente, in modo indipendente. Che ognuno sia libero di immaginare un avvenire più simile a se stesso e non a quello che il sistema vorrebbe fossimo. A questo serve la filosofia, la materia ritenuta inutile per antonomasia (soprattutto dai più assuefatti al dogma del fare): essere liberi. Abbiamo bisogno di filosofi pigri, di anime che amano nuotare e che sanno che solo nuotando liberamente si può essere felici.

 

Stefano Scrima

Scrittore, musicista e filosofo, sul tema della pigrizia filosofica ha scritto Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (Il Melangolo, Genova 2017) e Oziosofia (Diogene Multimedia, Bologna 2017). Altri suoi libri sono: Nauseati (Stampa Alternativa, Viterbo 2016), Esistere! Gide, Sartre e Camus (Diogene Multimedia, Bologna 2016), e Non voglio morire. Miguel de Unamuno e l’immortalità (Diogene Multimedia, Bologna 2015). È redattore di Diogene Magazine.
www.stefanoscrima.com

[L’immagine riporta l’illustrazione in copertina al libro Oziosofia]

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