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Maternità e migrazione: come diventare madre in Italia tra fratture e riadattamenti

Ogni essere umano è un essere culturale. Esiste una cultura esterna che è lo specchio del proprio Paese di appartenenza ed è rappresentata dalla lingua, dalla famiglia, dalle regole del gruppo, dalle leggi dalla religione, dall’organizzazione sociale di una comunità umana. Esiste poi una cultura interna che è costituita dall’elaborazione individuale della cultura esterna, attraverso un processo di progressiva interiorizzazione degli elementi culturali esterni: la cultura interna è quindi differente in ogni individuo, perché ognuno elabora attraverso una modalità totalmente personale la cultura esterna.

L’evento migratorio, per eccellenza, oltre che un evento sociologico, è anche un evento psichico che mette in discussione tutti i processi identitari ed implica inevitabilmente un’interruzione brusca, anche se prevista, del rapporto di continuo scambio e rafforzamento reciproco fra cultura interna (il quadro di riferimento interiorizzato dall’individuo) e cultura esterna (la cultura del gruppo di appartenenza)¹.

Cosa accade se viene a mancare la corrispondenza tra la cultura interna e quella esterna? Se la gestazione e il parto avvengono in un paese differente da quello di origine in cui l’involucro culturale diventa fragile e frammentato, che ne è dell’equilibrio psico-fisico che la gestazione richiede?

La maternità può essere un’esperienza particolarmente difficile per le donne migranti. La gestante si trova spesso a vivere la gravidanza senza l’accompagnamento delle donne della sua famiglia, si trova a partorire in un contesto che non corrisponde più alle sue aspettative, è totalmente sconosciuto e può essere avvertito come misterioso e minaccioso.
La neuropsichiatra francese Monique Bydlowski parla della gravidanza come di un periodo di «trasparenza psichica»²,si mette in rilievo il bisogno di sicurezza da parte della donna, si è attenti agli aspetti emotivi.

La maternità è un evento sociale culturalmente determinato: le modalità con cui una donna vive e gestisce la nascita dei propri figli dipendono strettamente dal contesto sociale e culturale di origine. Nel momento in cui tale evento avviene in un contesto estraneo sono necessarie delle strategie di trasformazione delle abitudini e di adattamento al nuovo ambiente.
Nello specifico, gli elementi culturali sono indispensabili in quanto esercitano una funzione preventiva, permettendo a ciascun soggetto di progettare in anticipo come diventare genitore e di attribuire senso e significato alle trasformazioni quotidiane che investono la relazione genitori-figli.

La migrazione può modificare in maniera radicale quest’esperienza: la donna si trova spesso isolata, in un ambiente che non conosce, dove vigono regole implicite che le sfuggono, non ha padronanza della lingua per esprimere le proprie necessità, dubbi e paure; il marito, quando è presente, non è abituato ad occuparsi della gravidanza della moglie; i servizi italiani sono diversi da quelli del paese; si intensifica la nostalgia della famiglia lontana che, al paese, l’avrebbe accudita e coccolata.
L’evento della migrazione richiede alle donne un lavoro psichico reso estremamente complesso da alcuni aspetti quali l’acculturazione, la solitudine e l’individualismo che si sperimentano in tale fase.
La madre si trova a dover elaborare nuovamente i significati associati alla filiazione in un sistema sociale e culturale di cui inevitabilmente non si sente parte attiva. Nello stesso tempo, l’evento migratorio determina delle significative rotture nella rete di supporto, in quanto viene meno il ruolo delle donne del gruppo di appartenenza, ovvero delle co-madri, che, nelle culture tradizionali è considerato essenziale nella fase di transito alla genitorialità. Ciò implica una notevole difficoltà nell’attribuire un significato all’esperienza della gravidanza.

La nascita nella migrazione consente di rilevare squilibri culturali e psicologici che sono presenti nella società ospitante e che intaccano il vissuto delle donne migranti; permette, inoltre, di conoscere e comprendere come esse sono in grado di ricorrere alle loro risorse individuali riuscendo a fare a meno della loro madre. Emergono anche altri aspetti connessi ai diversi modi di concepire la genitorialità e di prendersi cura del proprio figlio.
Ugualmente la società italiana, e in particolare modo i servizi socio-sanitari che operano nell’area materno-infantile, si trovano a confronto con nuovi modi di vivere la gravidanza, il parto e i primi mesi del bambino, e con nuovi modi di rapportarsi ai servizi socio-sanitari.

Alle difficoltà pratiche si aggiunge la fragilità psicologica conseguente al trauma migratorio e le mamme migranti vivono una condizione di doppia sensibilità e vulnerabilità: quella sperimentata inevitabilmente da tutte le donne gravide e quella legata al diventare madre lontano dalla propria famiglia e dalla propria cultura.
A ciò si aggiunge quello che la psichiatra e psicoanalista Marie Rose Moro ha definito la «solitudine elaborativa»³ delle donne migranti: la giovane madre si sente insicura e confusa, non sa bene come comportarsi, non sa se allevare il bambino come ha visto fare al paese o come le viene detto qui.

Negli ultimi anni i consultori e le ASL di molte città, anche in Italia, hanno dovuto fronteggiare problemi e questioni sollevate dalla presenza di giovani donne di nazionalità straniera che chiedevano e chiedono di essere aiutate nel percorso di gravidanza, ma anche nel periodo immediatamente successivo al parto.
Ciò ha imposto necessariamente una riformulazione dell’approccio alla maternità nelle strutture ospedaliere che tenga conto di alcuni particolari connessi alle culture di appartenenza delle partorienti, del tipo di domande e di preoccupazioni specifiche poste da queste donne, del rapporto spesso controverso che esse intrattengono con l’ospedalizzazione e con l’autorità medica, delle difficoltà linguistiche.

Al tempo stesso, però, il fatto che un momento così importante venga vissuto dalle donne immigrate nel nostro Paese fa sì che questa esperienza rappresenti anche un passo fondamentale nel progresso degli scambi culturali e nel rafforzamento del rapporto di fiducia che queste stesse donne vengono a intrattenere con gli operatori pubblici del Paese di accoglienza.
Per le ostetriche e per il personale medico e paramedico il condividere con queste donne un momento così intimo, conoscere le loro ansie, ma anche le emozioni connesse all’esperienza della maternità può rappresentare un modo per confrontarsi con i diversi significati attribuiti alla cura, cercando di evitare il rischio di ricondurli ad un orizzonte conosciuto ed etnocentrico, o evitare di lasciarli entro categorie intraducibili ed inaccessibili, lasciando ben sperare circa una nuova cultura del dialogo e dell’incontro culturale.
Solo se gli operatori sanitari sviluppano la capacità di accogliere l’alterità culturale senza giudizi e pregiudizi, cioè se imparano a decentrarsi anche a livello culturale, riusciranno a incontrare veramente le famiglie migranti e a costruire con loro un legame di fiducia.

«Solo se riusciremo ad accompagnare le madri e i padri nel percorso nascita, valorizzando la loro capacità di essere genitori, essi potranno sviluppare un senso di appartenenza al mondo di qui e i loro bambini svilupperanno la resilienza e l’arte di passare da una cultura all’altra con creatività e gioia»⁴.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. NATHAN T., Principi di etno-psicanalisi, Bollati Boringhieri, Milano, 1996.
2. BYDLOWSKY M., Sognare un figlio. L’esperienza interiore della maternità, Pendragon, Bologna, 2004, p.11
3. MORO M.R., Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura, Franco Angeli, Milano, 2005.
4. http://www.crinali.org/sites/default/files/Il%20sostegno%20delle%20madri%20mifranti%20x%20Citta dini%20in%20crescita%20feb13.pdf

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