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Una divagazione sulla morte

«Tutto scorre», diceva Eraclito. Le cose entrano ed escono in continuazione dal dominio dell’esistenza. Nascita e morte sono gli estremi tra i quali tutta la vita si svolge, si srotola, si dispiega nelle sue infinite forme e tonalità. Ogni cosa è una cristallizzazione momentanea di questo movimento che, senza inizio né fine, continua eternamente a fare ciò che gli è proprio: muoversi.

Tra questo pulviscolo di cristalli vi siamo anche noi, che pur facendo sempre parte dell’enorme flusso che è la vita universale, ci costruiamo i nostri piccoli, personali movimenti, che entrano in contatto gli uni con gli altri: spesso si allontanano, a volte si sfiorano, talora si toccano e, quando siamo fortunati, si intersecano. Poi, uno alla volta, questi movimenti si interrompono bruscamente, lasciando spazio ad altri centri che disegneranno nuovi percorsi.

Benché la morte sia ciò che vi è di più naturale a questo mondo, ci scuote profondamente quando ci tocca da vicino. La scomparsa di una persona cara costituisce un dolore difficile da sopportare: sentiamo la privazione, la negatività della mancanza. Questo sentimento è soffocante perché non c’è nulla che possiamo fare: siamo completamente impotenti di fronte alla situazione, ed è come se avessimo perso, assieme alla persona scomparsa, una parte di noi. Sembra quasi che per quanto possiamo costruire e stringere legami, tutto sia comunque destinato a scomparire. Ma al tempo stesso la vita è per sua natura relazione: inseriti in un contesto, ci rapportiamo a esso e a coloro che lo abitano; ci rapportiamo agli altri in vari modi, e a questo non ci si può sottrarre. In questo senso, come possiamo affrontare la scomparsa nel nulla di ciò che costituisce l’essenza stessa delle nostre vite?

Non vogliamo qui discutere se la vita dopo la morte continui in una qualche forma oppure se la morte sia una scomparsa definitiva. Ciò non cambia il fatto che quando l’affrontiamo qui, in questo mondo, la sentiamo come separazione. E poiché noi abitiamo questo mondo, è di essa che vogliamo parlare.

Quando viene a mancare qualcuno è come se venissimo privati di una parte di noi. Questo sentimento è qualcosa di più rispetto ad una permanente variazione nelle nostre abitudini, nel senso che mentre prima lo vedevamo sempre, ora non più. Un pezzo della nostra vita ci viene tolto perché la nostra esistenza è una continua relazione a ciò che ci circonda. Tuttavia vi è relazione soltanto tra entità dinamiche: nella misura in cui è l’entrare in contatto di due poli, essa va a cambiare la natura di entrambi. Conoscenze, amicizie, amori, tutto ciò va a modificare il nostro modo di stare al mondo: le nostre coscienze variano nella risonanza con le altre e si arricchiscono in un processo di continua crescita che conferisce nuove colorazioni alle nostre quotidianità. Le vere relazioni ricreano continuamente lo spirito.

Tutto ciò rimane anche una volta che una delle controparti viene a mancare. Certo, è evidente che in questi casi la relazione subisce un troncamento; tuttavia il tempo – per fortuna probabilmente – non è reversibile, e durante tutto il percorso che abbiamo affrontato insieme a qualcuno, comprese le impasses relazionali, ci siamo evoluti: esso ha modificato il nostro spirito, che si è arricchito di nuove sfumature prodotte proprio dal contatto con l’altro.

Nella sua opera Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson mostra come il tempo sia spesso pensato come una serie di momenti giustapposti come in fila, separati l’uno dall’altro e per questo isolabili e pensabili indipendentemente tra loro, la cui successione sarebbe ugualmente percorribile in avanti o all’indietro. La separazione e la giustapposizione sono però proprietà che appartengono allo spazio: ciò a cui pensiamo non è quindi la durata, bensì la sua rappresentazione spaziale. Gli stati di coscienza, mostra Bergson, si compenetrano l’un l’altro in quanto si svolgono nel tempo: non è possibile isolarli se non contravvenendo alla natura di questo. Ogni stato di coscienza riflette la personalità intera dell’individuo, perché egli è il risultato di tutte le esperienze che l’hanno formato e modificato fino a farlo diventare quello che è oggi.

Insomma, il nostro modo di stare al mondo cambia perché la nostra vicinanza con l’altro ci cambia.

Quando diciamo che qualcuno continua a vivere in noi, questa ci sembra una banale frase fatta, detta per consolarci, perché non ne cogliamo il senso; in realtà questa sentenza potrebbe racchiudere un messaggio filosofico molto profondo, a condizione di saper vivere a pieno la relazione, così da lasciarci arricchire ed arricchire a nostra volta gli altri, venendo a costruire delle profonde e fertili reti intersoggettive.

 

 

[Immagine tratta da Unsplash]

Pietro Bogo

Pietro Bogo

Determinato, Titubante, Contraddittorio

Nato a Belluno nel 1994, ho conseguito una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Trieste. Ho poi continuato i miei studi presso l’Université d’Aix-Marseille, dove ho ottenuto nel 2019 una laurea magistrale discutendo una tesi sulla relazione tra la sostanza e l’attributo nel pensiero di Spinoza. Al momento insegno lettere presso una […]

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