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A caccia di simboli nei libri di Francesco Boer

Per la seconda volta incontro Francesco Boer in una libreria. Un luogo classico in cui incontrare uno scrittore, chiaramente, ma nella mia testa lo colloco più facilmente nella natura mentre osserva l’andirivieni delle formiche o studia le forma delle foglie di un arbusto. In alternativa sepolto da mille libri e totalmente immerso nei suoi studi. Da tutto questo nascono i suoi libri, tra cui gli ultimi per l’editrice Il Saggiatore Troverai più nei boschi (2021) e Il piccolo libro del fuoco (2022).
Ecco che cosa ci ha raccontato.

 

Giorgia Favero – Nella tua biografia ti definisci esploratore, naturalista, scrittore – naturalmente – ma anche simbologo. Che cosa significa essere un simbologo e che chiave di lettura hai trovato nel simbolo, tanto da farne uno dei perni della tua indagine della realtà e della tua ricerca?

Francesco Boer – Ho iniziato a studiare i simboli perché sono un passaggio oltre la superficie delle apparenze, verso un significato ulteriore che attende come un potenziale, in ogni cosa che ci circonda. Il mondo, e la nostra vita, possono apparirci spenti, privi di senso: è una impressione che tutti, prima o poi, abbiamo provato, un pensiero doloroso che ci schiaccia come se fosse un peso sulle spalle. Riscoprire la portata simbolica dell’esistenza è una possibile via d’uscita da questo vicolo apparentemente cieco. Non è la ricezione passiva di una verità eterna, già pronta, ma un lavoro di ricerca e al tempo stesso anche di creatività, per ampliare la percezione con il significato. Il simbologo segue antiche rotte e ne traccia di nuove, e così crea connessioni, una rete di assonanze e affinità che permette di superare alcune divisioni altrimenti insormontabili, permettendo connessioni fra discipline diverse. La storia dell’arte e il mondo della tecnica, la psicologia del profondo e la geopolitica, antiche ritualità religiose e gesti quotidiani: il simbolo è presente in ogni cosa ci riguardi, perché è uno dei pilastri del nostro essere, un modo fondamentale che struttura il nostro pensiero e le nostre azioni. Con i nessi simbolici si possono così ricucire gli strappi di incomunicabilità che si sono aperti nel nostro panorama culturale a causa dell’eccessiva specializzazione. Non verso un appiattimento unitario, né a una raffazzonata confusione fra discipline, ma con un dialogo fra prospettive diverse, capaci di arricchirsi a vicenda nel confronto simbolico.

 

Giorgia Favero – La tua ultima pubblicazione, Il piccolo libro del fuoco, lascia largo spazio anche a un altro tipo di simbolo, quasi un racconto che si fa simbolo: il mito. Il mito, pur essendo molto antico, racconta molto di ciò che siamo oggi come singoli individui e può offrire tutt’ora degli spunti pedagogici validi. Quali miti ti hanno affascinato di più nella scrittura di questo libro?

Francesco Boer – Il mito di Prometeo, intimamente connesso col fuoco, è una narrazione complessa che ha continuato a far parlare di sé attraverso i secoli, cambiando forma attraverso riscritture di nuovi autori, pur mantenendo sempre la stessa carica archetipica. La forza del fuoco, la travolgente potenza del progresso umano: è sia una conquista, che la trasgressione di un volere divino. La fiamma, e tutto ciò che significa, è sì nostra, ma non di diritto. L’abbiamo sottratta con il furto, ci appartiene soltanto grazie all’inganno. Si tratta di un mito, certo, e ai più basterebbe questa definizione per scartare tutto, come se si trattasse di un vaneggiamento privo di conseguenze. Eppure storie come questa esprimono ansie e speranze radicante nel profondo della nostra anima culturale, e che altrimenti troverebbero difficilmente voce. Ignorarle non porta a nulla, perché le spinte sotterranee da cui queste voci hanno origine continuano pur sempre a influenzare attivamente le nostre vite. È necessario dunque imparare nuovamente ad ascoltare il mito: non screditandolo, come una fantasia del passato, né prendendolo troppo alla lettera, quasi fosse una profezia infallibile; ma interpretandolo, interrogando la narrazione e sé stessi, per capire cosa quella storia significhi per noi, oggi, per il mondo in cui viviamo.

 

Giorgia Favero – Nel tuo esaminare in lungo e in largo il fuoco, tra mitologia e cronaca, tra simbolo e letteratura, ti sei mosso non solo nel tempo ma anche nello spazio, dimostrando come in molti casi anche culture molto lontane dimostrano delle radici comuni. Qual è stato per il te il valore del confronto culturale nella stesura del libro?

Francesco Boer – Uscire dal proprio contesto, paradossalmente, è un modo per conoscere più a fondo la propria cultura, a cui pur sempre si appartiene in un certo grado. Nel corso delle mie ricerche, mi capita di passare dall’India all’Oceania, per poi arrivare magari alle popolazioni precolombiane del centro-America: non lo faccio per turismo culturale, per una fascinazione escapista verso l’esotico, ma nell’ottica di un dialogo fra visioni affini a quelle della nostra storia. Affine, va detto, non significa identico, né intercambiabile: troppo spesso la ricerca comparata tende a schiacciare le differenze culturali, banalizzando i singoli dettagli per creare un ipotetico mito “originale”, come se questa fonte unica, ammesso che esista, abbia per forza più valore dei suoi derivati. Al contrario, io sono convinto che sono proprio le diversità di espressione, le varianti culturali, a costituire il materiale sommamente prezioso del confronto e della ricerca simbolica.

 

Giorgia Favero – Cosa ti ha spinto alla scrittura di un libro sul fuoco e quale dei tanti simboli e significati indagati è stato per te quello più significativo, quello al quale ti senti più affascinato?

Francesco Boer – I simboli a volte attraggono con un incanto appena sussurrato, eppure ricco di fascino, irresistibile. Altre volte invece urlano con una voce quasi violenta, e anche lì è impossibile ignorarli. C’è stato un periodo in cui mi trovavo – simbolicamente e letteralmente – circondato da fuochi: l’incendio della cattedrale di Notre-Dame; le fiamme che hanno avvolto Minneapolis, durante le proteste per l’uccisione di George Floyd; gli spaventosi roghi che avvolgevano l’Amazzonia, la Siberia, l’Australia, e poi anche la loro versione ridotta (ma non meno spaventosa) nei boschi nostrani, anche quelli vicini, in cui passeggiavo fin pochi giorni prima, e che ora erano ridotti in cenere e carboni. Capivo che non si trattava soltanto di avvenimenti esterni: a ognuno di questi fuochi corrispondeva un bruciare interiore, fatto di angoscia e disperazione, ma anche di una profonda, spaventosa fascinazione. Scrivere il libro, a questo punto, è stata una necessità, il bisogno di trovare una risposta a una domanda apparentemente insolubile.

È impossibile, per me, ignorare la gravità dell’infuocata situazione in cui siamo. A livello collettivo, però, è proprio ciò che stiamo facendo: spaventati e conturbati, neghiamo la realtà e pure il simbolo. Facciamo di tutto per distrarci con altro, e se il problema ci sfiora la buttiamo sullo scherzo, nascondendoci dietro la misera maschera dell’ironia. In questo scenario, l’immagine più significativa e tremendamente attuale è forse quella – fra storia e leggenda – di Nerone che suona la lira e canta, mentre Roma brucia. 

 

Giorgia Favero – In questo dualismo irrisolto tra il bene e il male del fuoco emerge più volte anche un “grido ambientale”, quello del nostro pianeta che brucia a causa del riscaldamento climatico, una conseguenza della nostra ipertrofia nella padronanza del fuoco attraverso la tecnica. Infatti, come scrivi chiaramente nel libro, «Spegnere le fiamme [innescate dalla tecnica] significa rinunciare alla propria potenza». Considerando la smania umana di potenza, credi che si possa arrivare a un momento in cui si possa rompere l’illusione di crescere senza far bruciare tutto?

Francesco Boer – Il momento della disillusione, in un modo o nell’altro, arriverà. A far la differenza è il modo con cui l’illusione di potenza si infrangerà: può essere come un risveglio, una presa di coscienza, o in modo del tutto traumatico, la dura realtà che si riafferma con uno sconvolgimento di portata disastrosa. A essere realisti, è verso quest’ultimo esito che ci stiamo collettivamente incamminando, e pure a passo spedito. Non farsi illusioni, però, non significa arrendersi a un compiaciuto pessimismo. Questo libro vuole essere anche il tentativo di non abbandonarsi alla disperazione: non basta descrivere il problema, si può e si deve immaginare soluzioni. E magari è proprio il simbolo a poterci suggerire strade nuove, che ci allontanino dall’abisso. Forse, nel caleidoscopio dei miti, possiamo raccogliere un’ispirazione rimasta inespressa, capace di cambiare il nostro deleterio modo di vivere.

 

Giorgia Favero – La ricchezza di questo libro, come anche di altri libri che hai pubblicato, è che il racconto è accompagnato anche da bellissime illustrazioni. Perché questa scelta e chi ha selezionato concretamente le illustrazioni?

Francesco Boer – Ho svolto di persona la ricerca iconografica, di pari passo con la stesura del testo. C’è una circolarità fra i paragrafi e le illustrazioni: a volte l’immagine precedeva il testo, suggerendone lo sviluppo, che a sua volta portava a nuove figure, con un processo che a volte sfociava in una creatività quasi onirica. Navigavo seguendo miraggi, eppure sentivo che non stavo girando intorno, e che anzi quel procedere errabondo era l’unico modo per raggiungere la meta che cercavo.

 

Giorgia Favero – Il libro Troverai più nei boschi invece si propone come un “manuale per decifrare i segni e i misteri della natura”, che quindi viene indagata con occhio preciso e analitico. Ma la relazione tra lo scrutatore e lo scrutato viene ripresa più volte con fare altrettanto indagatore. Per esempio scrivi che «L’uomo di animo sensibile entra nel bosco. Lo fa come se entrasse in un tempio a lui proibito. Cerca un contatto con la natura, ma al tempo stesso porta dentro di sé un senso di colpa, il misfatto di appartenere a quell’umanità che ha devastato e continua a rovinare la natura»: questo senso di colpa secondo te è davvero così diffuso? Ed è un sentimento intrinseco all’essere umano o di origine più contemporanea?

Francesco Boer – Distinguere fra costruzione culturale e tendenza innata è difficile e problematico. Preferisco concentrarmi sul fatto che il sentimento sia molto diffuso, e di radice antica, e che al giorno d’oggi sia più attivo che mai. Il senso di colpa influenza con grande intensità diversi aspetti della nostra vita, e il rapporto con l’ambiente è uno di essi. Una volta riconosciuta la sua esistenza si può iniziare a lavorarci sopra, a interpretarlo simbolicamente: capire quanto e come ci limiti, e chiedersi se possa essere trasmutato, magari persino sublimato in una risorsa per un futuro migliore.

 

Giorgia Favero – La ricerca di un equilibrio umano-naturale è auspicata più volte all’interno del libro, ma come abbiamo già detto l’interesse per il tema ambientale emerge anche da altre tue pubblicazioni. Secondo te in che modo si può concretizzare davvero questo equilibrio?

Francesco Boer – Non è facile, perché comporta una rinuncia: di possesso, di potere, di capacità di controllo. Per secoli, l’essere umano si è comportato come un piccolo despota, comandando sul territorio con pretese assolutiste. In quest’ottica perversa, ogni cosa è o una risorsa, o un ostacolo. Animali e piante, boschi, fiumi, montagne: ciò che non poteva essere usato, andava tolto di mezzo. È un regno miope, perché ben presto si rivela insostenibile; la sua economia lo porta per forza al collasso. Ma prima ancora, è un modo d’essere colmo di bruttezza, perché isola l’uomo in un delirio di onnipotenza, tagliandolo dal resto del mondo e condannandolo a un isolamento che in ultima analisi priva la vita di senso.  Alla fine, è l’uomo stesso a soccombere, avvelenato dalla sua avidità: ben lontano da essere un re, diventa egli stesso merce della propria economia scellerata – anch’esso, o risorsa o scarto di un sistema.

Credo che il simbolo sia anche un vettore di empatia; la riscoperta del valore di ciò che ci circonda, una bellezza che diventa un legame quasi fraterno. Una parentela simbolica con gli elementi del mondo, che sia un albero o il cielo stellato.  Lo sfruttamento e la devastazione, a questo punto, appaiono impensabili: non li si rifugge per dovere, o per senso di colpa, ma spontaneamente, così come si porta cura e rispetto verso coloro a cui vogliamo bene.

 

Giorgia Favero – Il titolo del libro, che ci lascia una sorta di sospensione, deriva da una antica citazione di Bernardino da Chiaravalle che ci apre anche spunti di riflessione sul senso, ma anche sulle nostre modalità pedagogiche. Vuoi spiegarci il senso di questo riferimento e in che modo pensi sia attualizzabile nel mondo odierno?

Francesco Boer – Si tratta di un’apertura verso il mondo, un ascolto attivo che passa anche attraverso il dialogo simbolico. “Troverai più nei boschi che nei libri”, dice la frase completa, quasi a sottolineare il pericolo di un’istruzione impositiva. Se imparo la mia verità, per quanto parziale, poi finirò per imporla sulla realtà complessa che mi circonda. È meglio mantenere una ricettiva umiltà, osservare e interagire, anche lasciarsi spiazzare da esperienze che contrastano con quello che credevamo di sapere. Certo, non è affatto facile, e qui sta appunto il ricorso al libro , apparentemente negato dalla massima: si tratta di re-imparare un modo di porsi, di raccogliere, di farsi trascinare. Anche il bosco più vivo, altrimenti, resterebbe muto di fronte a un’anima chiusa.

 

Giorgia Favero – Questa indagine attenta della realtà, questa ricerca di significato profonda tocca alcuni punti in comune con il pensare filosofico. Del resto ci sono anche molti filosofi che dal loro passeggiare nella natura e dalla ricerca di simboli hanno trovato spunti per la propria filosofia (ad esempio Nietzsche). Ce ne sono poi anche altri (come Hegel) che non si sono invece lasciati incantare dall’immersione nella natura, trovandola distante dall’esercizio del pensiero. Tu come vedi questo rapporto tra filosofia e natura (in senso lato)? Che cosa significa per te fare filosofia?

Francesco Boer – Non sono mai stato attratto dal pensiero più rarefatto, quasi astratto dalla realtà concreta: tutto sommato, mi pare che la servetta trace avesse le sue ragioni. D’altro canto, anche il materialismo più superficiale mi riesce di difficile sopportazione, e porta a trappole ben più insidiose di un pozzo. Il fascino che la simbologia esercita su di me sta proprio di essere nel mezzo, un rapporto che lega idee e immagini, sensazioni e oggetti concreti. Permette di camminare con un occhio puntato verso le stelle, e uno attento alla terra; e magari di scoprire i rapporti sottili che collegano queste due metà dell’essere. In questo senso, non credo che l’esperienza della natura sia in conflitto col pensiero, e anzi il concetto stesso di “natura” è una complessa amalgama di entità viventi e idee umane, un ecosistema in cui possono trovare posto e nutrimento anche le nostre riflessioni.

 

 

[Photo credit nikita velikanin]

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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