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Binswanger, “Il caso Ellen West” e il vissuto di fine del mondo

L’idea focale su cui s’impernia l’analisi di Binswanger è che nell’insorgenza psicopatologica non ci sono soltanto sintomi da individuare e cure da somministrare, ma vi sono anche modalità esistenziali da ascoltare, che descrivono la situazione attuale di un’autentica presenza umana. In questo modo il sinto­mo psicopatologico non è più semplice indice di una disfunzione psicologica o organica, ma diventa una vera e propria prospettiva di progettazione del mondo, che invece di annichilire la presenza umana, la orienta e la ingabbia entro inevadibili categorie mortifere.

Nel vissuto psicopatologico la presenza umana si ritrova quindi tumulata in uno stato controverso, e in questo permane lasciando il sofferente in una condizione paradossale di esser-gettato-nel-mondo. Tale condizione non permette alla presenza di porsi oltre di essa con un’azione  personale che la dinamizzi, e il mondo non risulta più sorretto da significati differenti da quelli del disturbo. Si può dire che il mondo sia “finito”, trascinando con sé ogni cosa tranne l’individuo sofferente, che si ritrova da solo a contemplare lo sfacelo universale. Questo tipo di vissuto è esperibile nei momenti in cui l’energia morale umana, che sempre intende oltrepassare la pietra e le stelle mute in un va­lore, si flette su se stessa e s’ingrigisce fino a non comprendersi più in alcun modo, se non con le cate­gorie del deserto e della sofferenza sorda e inestirpabile.

È questa la condizione lamentata da Ellen West, quando sostiene che ogni cosa è vuota, che nulla ha più un suo senso, che ovunque non aleggia altro che morte. La gravità del suo lugubre sentore è accentuata dalla sua radicale incapacità di emanciparsene, giacché questo ha assoggettato al suo domi­nio ogni possibilità di prassi esistenziale positiva. Ella denuncia una tensione insostenibile, che da una parte la trascina verso l’abisso, in un mondo sepolcrale e stagnante, e dall’altra invece la attrae verso regioni eteree, letterarie e ambiziose, dove lei ha sempre sperato di dimorare; ma più mitizza que­sta dimensione di speranza, più la tenebra la trascina sul fondo. Il suo corpo è ingombro di organi e ma­teria, il cibo la appesantisce e la fa sprofondare, la sua femminilità è smorzata da una idealità di legge­rezza che cozza con le sue necessità biologiche. Il passato è una terra di rimpianti e dolori che la tormen­tano; il futuro è bugiardo e assurdamente crudele; e il presente sembra un’eternità immota che non lascia spazio al cambiamento. Quando poi ella scopre di non poter accedere alla grazia del mondo spirituale, mercé l’ineluttabilità del suo incanutire e la paura di farsi sgraziata, la morte diventa per lei l’unico obiettivo contemplabile. I vissuti esistenziali di Ellen si muovono essenzialmente attorno a queste immagini, che pur dilaniandole il corpo e l’anima, le lasciano tutta la lucidità di una donna intelli­gente, che troppo bene comprende la sofferenza angustiante cui è condannata.

Per ricavare una diagnosi soddisfacente e per poter proporre una terapia efficace che sappia realmente incontrare le esigenze della presenza ingrigita di Ellen, il dottor Binswanger dapprima si concentra sulle metafore utilizzate dalla paziente per spiegare il suo malessere, e in seguito avanza un approccio di tipo antropologico, andando a ricostruire e ad analizzare l’intera storia della paziente alla luce di quanto intuito dall’analisi delle sue espressioni. Per lo psichiatra difatti «le interpretazioni psicoanalitiche si rivelano quali particolari interpretazioni simboliche sul terreno della comprensione antropoanalitica»1, nel senso che la psicoanalisi è un momento della ricostruzione del fatto antropologico, ossia della presenza umana considerata. Senza riconoscere il senso esistenziale di un individuo e delle modalità con cui ci-è non si può comprendere la maniera con cui questi interpreta il mondo, poiché Mondo e Sé sono intercambiabili – l’uno determina l’altro attraverso l’attività interpretante e agente del secondo. È la teo­ria schopenhaueriana del soggetto che consente all’oggetto di apparire come fenomeno nella catena causale degli eventi. Il valore, i vissuti e il nome del Sé si rivelano una volta che il suo Mondo è stato messo in luce, e per farlo occorre percorrerlo da un polo all’altro per poi coglierlo nella sua essenza principale. Battendo anche questo percorso, la terapia psichiatrica può dirsi completa, poiché, in accordo col dottor Binswnager, esso compensa la sterilità della psicoanalisi più “organica”.

Il caso di Ellen presenta però alcune anomalie: come si espone nella terza parte del libro, inerente all’a­nalisi clinica della paziente, il suo disturbo non è classificabile sotto nessuna categoria particolare. Non si tratta di affezione da idea delirante, giacché questa è sostenuta dall’individuo, mentre Ellen combatte la sua ossessione; non si tratta di isterismo, poiché la donna non maschera angosciosamente il suo dolore; né si tratta di una depressione acuta, in quanto non si riscontra il tipico sentimento di colpe­volezza e del non-poter-riparare-a. È a questo punto che Binswanger propone un quesito tanto fa­scinoso quanto terrificante: si tratta «di sviluppo di personalità psicopatica o di processo schizofrenico»2? Egli opta per la seconda possibilità, seppur con alcune riserve, ma rimane il fatto che la prima è stata contemplata. E l’espressione utilizzata si riferisce alla possibilità di incarnare un ruolo an­tropologico, una personalità appunto, circoscritta e definita secondo i vissuti psicopatologici, ma che non soffre di una specifica malattia mentale. Se nel vissuto schizofrenico l’associatività di pensieri e di parole risulta sconnessa e lacunosa, in Ellen la lucidità di pensiero, di linguaggio e di emotività si man­tengono intatte, ma vengono compromesse da un dolore innominato e profondissimo che si richiama al vissuto mortifero sopra citato. Questo non è dunque un vissuto esistenziale che affligge solo il malato, ma si configura come un rischio tipicamente antropologico, in cui può scivolare chiunque non riesca a trovare la forza di plasmare e interpretare il mondo secondo la sua propria “esistenzialità”. Le modalità di crollo sono innumerevoli, ma nessuna è definitiva, e lo stesso dottor Binswanger non riesce a risalire all’origine del male. Sembra soltanto postularlo, suggerendo che Ellen è sempre stata tale e che di­versamente non poteva essere.

Ellen West si avvelenò il 4 aprile 1921, all’età di 33 anni. Il suicidio era diventato per Ellen l’unico mez­zo per affermare la sua libertà sul mondo infernale cui era costretta. Per riconquistare se stessa, dovette eliminarsi. In un certo senso non ha rinunciato a realizzare la sua presenza, ma come sostiene il dottor Binswanger, l’ha invece confermata nell’unico modo che le rimaneva plausibile: il suicidio era quanto di più conseguente ci si poteva aspettare da una presenza umana così addolorata e incurabile. Resta il documento di una storia tremenda e circolare, che si lascia osser­vare solo da oltre i suoi confini, facendoci intuire gli aspetti più fragili e oscuri della nostra es­senza più intima: la possibilità di non potersi realizzare, a causa della subordinazione a un pensiero che vuole disperatamente contraddire l’ineluttabile; o la possibilità di trovarsi costretti ad affer­marsi solamente tramite la morte.

 

Leonardo Albano

NOTE:
1. L. BINSWANGER, Il caso Ellen West, Einaudi, 2011, p. 136
2. Ivi, p. 190

 

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