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Aristotele e l’Etica Nicomachea: per essere felici bisogna imparare a fiorire

La felicità può essere considerata come uno di quei temi senza tempo su cui da sempre ci si interroga, non soltanto sul piano epistemologico – Che cos’è la felicità? – ma soprattutto su quello pratico ed etico – Come si vive una vita felice?

Nella filosofia antica, Aristotele fu tra i primi ad indagare tale aspetto, partendo dal presupposto che, per l’uomo, il fine ultimo da raggiungere sia il Bene. Nella sua Etica Nicomachea, egli delinea un tipo di etica eudaimonistica, spesso tradotta come “etica della felicità”, ma che, andando nelle profondità della concezione aristotelica, essa è stata più precisamente coniata come etica della fioritura1. Cosa intendeva Aristotele?

Per lo Stagirita, la vera felicità è una fioritura dell’essere, perché è generata non da episodi – singoli accadimenti – bensì da un particolare modo di vivere la vita che ha in sé un’armonia e che tende di per sé al bene. La felicità è un tipo di attività dell’anima, è un movimento che parte sempre dall’interiorità e che gradualmente si esplica verso l’esterno – dall’io al tu. Essa dipende fortemente dalla capacità di saper coltivare le virtù, ovvero quelle disposizioni dell’animo che consentono all’uomo di poter fiorire. Per questo, ad esempio, essere formati al coraggio, alla responsabilità e alla temperanza, significa richiamare a quelle virtù che sono innate nell’uomo ma che spesso non vengono particolarmente educate. 

Colui che coltiva le virtù saprà fiorire in se stesso e, di conseguenza, nella polis, a livello quindi sociale e politico, poiché l’uomo resta sempre, nella propria essenza, un animale sociale. Egli saprà farsi promotore di una società giusta, di una società equa; saprà educare il proprio intelletto all’arte, saprà andare al cuore delle cose nella propria specificità e, quindi, applicare la politica e la saggezza nella particolare comunità in cui è inserito.

Le virtù, per Aristotele, si suddividono in due categorie: quelle etiche e quelle dianoetiche. Le prime, derivano dall’abitudine, le seconde, invece, dal tempo e dall’esperienza.
Nell’attuale società contemporanea, che sembra a tratti rifuggire dall’abitudine perché il monotono ed ordinario tende spesso ad assumere connotati dispregiativi rispetto ad una stra-ordinarietà intesa invece come forzatamente e necessariamente positiva, e dove il fast è parola d’ordine, la filosofia antica potrebbe essere considerata come anacronistica. Essa, infatti, nobilita la capacità di saper fiorire nel tempo, nell’esperienza, nell’abitudine che è, etimologicamente, quell’abito che nel corso della vita impariamo a cucire e ad indossare quotidianamente, essendo espressione della nostra interiorità e che, quanto più ci muoviamo dall’esterno verso l’interno, tanto più tale abito ci calzerà a pennello. L’abitudine si vive, non si fa: solo così essa potrà essere concepita come luogo da cui apprendere, ancora oggi, la virtù etica.
L’arte del fiorire si contrappone alla logica del fast: non può essere forzata, segue leggi proprie che fanno della gradualità e della cura le proprie parole d’ordine.

È ancora il tempo per un’etica eudaimonistica, un’etica della fioritura? Certamente è sempre tempo per la felicità. Ma, come dice bene Aristotele, non si può essere felici da soli, poiché per poter fiorire davvero servono diverse tipologie di beni (esteriori, interiori, sociali) tra cui gli amici. Si fiorisce, sì, ma solo insieme.

Pensare oggi ad uno stile educativo che accompagni la persona in un percorso di realizzazione del sé nelle dimensioni fondamentali dell’essere umano, secondo la recente definizione di esso come essere bio-psico-sociale, consentirebbe forse di passare da una società in cui, come ben ha definito Zygmunt Bauman, l’eccessiva assenza di legami genera vite di scarto, disparità, povertà, disagio e, quindi, profondo malessere di infelicità, ad una comunità del fiorire dove ciascuno è, contemporaneamente, al centro e accanto: al centro di un processo educativo; accanto all’altro, a cui è legato ontologicamente e senza il quale, inevitabilmente, nulla potrebbe essere. 

Rivalorizzare il senso dell’abitudine, aristotelicamente intesa, nonché l’importanza di concepire la virtù come quell’armonia a cui educhiamo costantemente noi stessi nel corso della vita, potrebbe essere un valido motivo per mostrare la bellezza rivoluzionaria di una vita che può trovare la propria straordinarietà in un’ordinarietà spesso sottovalutata.

 

Agnese Giannino

Agnese Giannino è una dottoressa in Scienze Filosofiche.  Dopo la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Catania, consegue cum laude, nel medesimo Ateneo, il titolo magistrale in Scienze Filosofiche, presentando una tesi in ambito bioetico. Appassionata di etica ed innamorata dell’insegnamento, ha lavorato nella formazione e, ad oggi, continua ad approfondire i propri studi.

 

NOTE
1. Cfr. N. Warburton, Il primo libro di filosofia, 2007.

[Photo credit Denise Jones via Unsplash]

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