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Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

[Photo credit Shane Rounce via Unsplash]

 

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