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Diritto e giustizia alla luce dell’antropologia culturale

Una riflessione sull’utilità evolutiva dei sistemi di procedura penale per la mente del giudicante.

L’antropologia culturale studia le mutazioni della conoscenza sul modello di quelle genetiche. Con una differenza fondamentale, che, in quelle culturali, i geni-idee, “viaggiano” assai velocemente e sono così destinate ad essere riformulati ed anche destituiti in poco tempo, mentre le mutazioni genetiche sono rare e intervengono in tempi assai lunghi. Porre l’attenzione ai mutamenti culturali insiti nell’accertamento penale è interessante perché rispecchia pienamente questo approccio antropologico e pone altresì delle questioni spinose relative alla reale utilità di queste mutazioni rispetto alla funzione sociale della giustizia penale. E’ noto come ogni mutazione (prima fra tutte quella genetica) ricombini la struttura su cui interviene e questa “novità”, per essere accettata, debba essere “giudicata” favorevole per l’evoluzione della specie di riferimento, prima di divenire un nuovo patrimonio consolidato. Accade lo stesso per le mutazioni culturali, laddove in luogo dei geni vi sono, appunto, i geni-idee, con la peculiarità precedentemente accennata e cioè che queste sono assai rapide ad entrare a far parte del bagaglio del pensiero ma con altrettanta velocità possono non resistere al principio evolutivo e dunque essere accantonate perché disutili. Valutando le modifiche di paradigma del processo penale ci si rende conto come, nel volgere di pochi secoli, il processo ed in specie la legislazione, che funge da patrimonio genetico del medesimo, siano stati oggetto di mutazioni considerevoli: si è passati rapidamente da una fiducia incontrastata nel giudizio divino (l’ordalia) per arrivare, oggi, al processo “ad armi pari” (il sistema accusatorio moderno) passando per l’Inquisizione, che riponeva la massima fiducia nel giudicante e nella funzione della tortura come naturale via per raggiungere la verità, senza trascurare il sistema della prova legale in cui, a ciascun mezzo probatorio, veniva assegnato un valore numerico di affidabilità predeterminato, togliendo al giudice ogni forma di interpretazione soggettiva ai fatti. Differentemente da ciò che la vulgata sostiene usualmente, il modello processuale penale italiano è certamente, nei suoi connotati normativi, uno dei più evoluti di sempre. Basta infatti pensare che le norme che lo compongono ricalcano tutti i criteri tipici di demarcazione tra metodi scientifici e pseudo-scienze, a favore della soluzione scientifica dell’impianto regolatore del procedimento. Vale ricordare i due principali cardini dell’epistemologia recepiti dal codice: quello neopositivista, già di origine newtoniana, della verificabilità empirica degli assunti e quello falsificazionista di tradizione popperiana. L’accusa infatti deve provare il suo atto d’accusa portando delle prove concrete dei fatti che dimostrino l’accadimento e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto. Tale proposta cognitiva non può essere un postulato ma deve altresì resistere alle confutazioni (e dunque deve poter essere falsificata); in questo modo, nella sua motivazione, il giudice è chiamato a esaminare i dati empirici che riscontrano quanto sostenuto dall’accusa ed anche esplicitare il perché l’ipotesi resiste alle smentite. Alla luce di tutto ciò v’è da chiedersi per quale motivo il giudizio di colpevolezza (oltre ad ogni ragionevole dubbio) possa non risultare sempre manifesto o, addirittura, essere smentito, sulla base dei medesimi elementi, dal giudice di rango superiore. Una risposta può essere offerta proprio dall’antropologia culturale, che, si sa, è uno dei formanti delle scienze cognitive. Durkheim ha ben evidenziato come il delitto crei una ferita nella società e la punizione del colpevole rappresenti, non solamente il ripristino della legalità, ma specialmente la cura contro quella ferita ed il male che essa ha prodotto; in questo modo il giudice si trova ad avere una funzione di garante del tessuto sociale e, in ciò, può trovare, nell’evoluzione culturale del processo (che crea orpelli spesso inestricabili rispetto ad una pronta risposta repressiva) un limite a tale ruolo di “clinico” del male prodotto. Ciò non avviene con pregiudizio o cattiva conoscenza delle regole processuali, ma proprio mediante percorsi cognitivi naturali, principalmente dovuti al ruolo svolto. La disutilità dell’evoluzione (giuridico-culturale) può dunque fare da freno alla rigorosa applicazione del diritto. In quest’operazione mentale il giudicante si trova a sostituire l’epistemologia con l’ermeneutica e ciò nel senso che supera la regola attraverso l’interpretazione. L’epistemologia obbliga infatti ad un ragionamento esclusivamente basato sulla disciplina normativa e non consente di aggirare questa in nessun modo; di contro, l’ermeneutica, metodo tipico dello storico, vuole che chi è chiamato a dare significato ad un fatto utilizzi tutte le conoscenze possibili, tra cui l’interpretazione. Se uno storico vuole decodificare uno scritto antico, magari leggibile solo parzialmente, attingerà ad altre fonti per tentare la migliore interpretazione. L’epistemologo, di contro, dovrebbe dichiarare sconosciuta la parte non manifesta. Per la prova penale e per il principio del ragionevole dubbio, la normativa impone la medesima condotta: il giudice deve fermarsi sui “vuoti probatori”, non può utilizzare né la scienza propria né altre conoscenze per superare il dubbio, magari re-interpretando la prova. Spesso, però, ciò non accade. Dal punto di vista delle scienze cognitive questa può essere una trappola mentale (un’euristica) che scaturisce dal ruolo di “crime controller” del giudice; dal punto di vista dell’antropologia culturale si può affermare che l’evoluzione normativa e dunque culturale (del processo) si frapponga alla soluzione sociale del problema-delitto e dunque assurgere al ruolo di evoluzione disutile (per l’evoluzione stessa) della specie (società). Questo “imbrigliamento” della mente del giudicante nel ruolo svolto, richiama gli esperimenti di Zimbardo (raccolti nel volume “L’effetto Lucifero”) secondo cui l’attribuzione di una determinata funzione ad un essere umano ne “ricabla” i percorsi neurali, anche e ben al di là di quelle che sarebbero le propensioni di costui, al di fuori del ruolo assegnatogli. Queste ragioni danno una illuminante spiegazione alla scollatura che assai spesso si può riscontrare tra il diritto e la giustizia applicata, laddove il primo è il lato dell’evoluzione culturale ed il secondo la sponda della modalità adattiva per l’evoluzione della specie dei geni-idee contenuti nelle regole astratte. Il giudice si trova così sul crinale di un doppio ruolo, quello di custode principale dell’evoluzione antropologico-culturale e quello del controllore del buon andamento sociale e del distributore di decisioni che sappiano rispondere a questa sua proiezione extragiuridica. Ciò porta ad inestricabili problematiche di ordine cognitivo per rendere compatibili tali ruoli, con buona pace per gli assunti dogmatici che vogliono il giudice, sempre e comunque, esente da contraddizioni ed errori mentali, diversi da quelli patologici preveduti dal codice come cause di impossibilità a svolgere la funzione (da cui le quasi insignificanti regole sull’astensione e la ricusazione).

Luca D’Auria

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