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Urbanicidio, ovvero uccidere una città

Arrivare ad Amatrice dal versante sud è un’esperienza sconfortante: a distanza di più di tre anni dal terremoto che ha raso al suolo la cittadina del reatino, il centro storico è ancora un ammasso di macerie, le ricostruzioni non sono mai cominciate, la popolazione vive ancora in alloggi sempre meno “temporanei”, quel che resta delle case, degli edifici storici, delle chiese non è neanche stato rimosso, e tra le macerie si possono addirittura intravedere resti di mobilio, di arredi, perfino di vestiti. Sarebbe tragico se la situazione fosse dovuta a una mancanza di fondi, ma diventa fonte di indignazione quando invece la ricostruzione di Amatrice, come degli altri paesi del cratere del terremoto 2016-17, è bloccata da un’ottusa miopia burocratica, che applica le normative in uso per le costruzioni ex novo anche alle ricostruzioni emergenziali. Causato da calcolo o da stupidità, considerate le conseguenze tragiche che questo stallo ha sulla popolazione e sulla comunità cittadina, esiste un termine per definire quanto sta avvenendo: urbanicidio.

La parola è entrata nel linguaggio comune nel 1991, allorché alcuni giornalisti furono lasciati entrare in ciò che restava di Vukovar, una delle città più fiorenti e culturalmente attive della Slavonia, in Croazia. Pur non essendo vittima dei conflitti sociali ed etnici che caratterizzavano altre cittadine balcaniche durante la guerra, Vukovar fu sistematicamente annichilita dalle milizie serbe, che dopo un lungo assedio procedettero a distruggerne gli edifici più importanti e caratterizzanti, a estirparne l’identità, a passarne la popolazione a fil di spada secondo i criteri della pulizia etnica in corso. Di fronte a quello scempio, i reporter sul campo non poterono che constatare la scientifica “uccisione” della città, colpita ai propri organi vitali per impedire che potesse rinascere1.

Se la parola urbanicidio è relativamente nuova, il concetto in sé affonda le proprie radici nell’antichità: la distruzione di Troia, secondo il mito, risponde alla stessa volontà di annientamento dell’anima di una città prima ancora che delle sue mura e dei suoi palazzi, così come quella di Cartagine da parte di Roma, col sale sparso sull’area della pianta cittadina per impedire perfino all’erba di ricrescere. Più recentemente, la tedesca Odessa e le giapponesi Hiroshima e Nagasaki, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno rischiato il destino di miriadi di piccoli paesi e centri rurali, soprattutto italiani e francesi, spazzati via dal conflitto.

L’urbanicidio assume senso partendo dalla considerazione che una città non è solo un insieme di edifici, abitativi o lavorativi, di luoghi di culto, di aree verdi, di centri più o meno storici, quanto piuttosto l’incarnazione in pietra, legno, acciaio e cemento dell’identità dei suoi cittadini, costruita e tramandata generazione dopo generazione, forte abbastanza da imprimersi su mura, porte, strade, palazzi e parchi, e da definire e in-formare a sua volta il carattere e la percezione che di sé hanno i vecchi e nuovi cittadini. Una città ha una sua personalità, un suo apporto unico e fondamentale al coro delle comunità umane, è più antica degli Stati e con ogni probabilità sopravviverà ad essi. È partendo da queste considerazioni che il Secondo Dopoguerra ha visto il fiorire di movimenti per i diritti delle città, prima di tutto il diritto alla vita, fondando anche organi internazionali come il Parlamento Mondiale dei Sindaci, tesi a tutelare l’integrità fisica e morale delle città contro gli abusi e le violenze cui sono sottoposte, il più delle volte dagli stessi Stati2.

Abbandonare una città a se stessa dopo una catastrofe naturale, non solo non facendo quanto possibile per facilitare la ricostruzione ma operando attivamente per bloccare ogni tentativo di rinascita, non è troppo diverso dal distruggerla scientemente con bombe e mortai: in entrambi i casi, si impedisce a una comunità di ritrovare il proprio spazio comune, di recuperare il tesoro di vita, esperienza e carattere stratificato nelle pietre di strade e edifici, di tramandare uno spirito consegnato alle generazioni future da quelle passate e custodito tra vie e parchi, in chiese e torri. Uccidere una città è un crimine non troppo diverso dall’uccidere una persona: in entrambi i casi, il coro del mondo perde una voce insostituibile, e il patrimonio umano si fa un poco più povero.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1. Cfr. P. Rumiz, Maschere per un massacro, 1996
2. Cfr. G. La Pira, Le città sono vive, 1957

[Nell’immagine di copertina: Serjilla, Siria]

la chiave di sophia 2022

Giacomo Mininni

inquieto, contemplativo, curioso

Vivo da sempre a Firenze, non solo una città, ma un modo di essere. Sono filosofo morale, ma successivamente mi sono specializzato in filosofia delle religioni, e ho lavorato anni nell’ambito del dialogo interreligioso e dei progetti di collaborazione tra fedi e confessioni diverse. Sono felice padre di una bellissima bambina, che pur avendo poco […]

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