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Un mondo senza amore: la doppia tirannia in The Lobster

Guardare The Lobster, film del 2015 del regista greco Yorgos Lanthimos, è un’esperienza quasi surreale. Per tutti i 118 minuti della pellicola, lo spettatore e la spettatrice si trovano quasi costantemente nella scomoda situazione di non sapere se ridere o inorridire. È il risultato di un film davvero ben pensato, oltre che ben realizzato – ma qui non ci soffermeremo sulla fotografia sapientemente algida e sui (rari) movimenti di macchina –, esattamente quel genere di prodotto artistico capace di sollevare degli interrogativi nello stesso momento in cui intrattiene.

La realtà fantascientifica in cui si muovono i protagonisti di The Lobster, primo su tutti David (Colin Farrell), non potrebbe essere più realistica: un hotel dal sapore elegante e antico nella prima parte del film, una fitta foresta nella seconda. Due scenari evidentemente contrapposti, se non fosse che, oltre alla semplice apparenza, risultano entrambi sfondi di una stessa tirannia: quella in cui l’amore è bandito. Nella società in cui vive David infatti è vietato essere single: non appena si perde il compagno o la compagna, si viene “deportati” in dei centri specifici per trovare un sostituto e ricostituire la coppia; se non si riesce nell’intento entro 45 giorni, l’epilogo è la trasformazione in un animale. Scegliere quale tipo di animale è una delle poche concessioni al libero arbitrio previste in questi centri, dove la ricerca di un compagno non ha a che fare con l’amore ma con dei calcoli di affinità degni delle becere promozioni sui cellulari dei primi anni Duemila. Persino in una società in cui è vietato essere soli, dunque, la complessa alchimia dell’amore passa in secondo piano e ciò che conta è la performance della coppia, molto più della sua felicità. Una società repressa in cui non ci si può masturbare, né uscire dal binomio etero o omosessuale, e nemmeno portare il 44,5 come numero di scarpe – come nel caso di David – ma nemmeno avere tratti e caratteristiche dissonanti rispetto a quelle del proprio partner: bisogna essere compatibili in tutto e per tutto. Ed è proprio dinanzi a queste caratteristiche che in The Lobster sembra di veder scomparire l’individuo nella sua unicità, tanto è vero che, a parte David, non ci sono dati sapere i nomi degli altri personaggi, che diventano “donna miope”, “uomo con la zeppola”, “ragazza con l’epistassi” e così via.

Ma non esistono mezze misure nemmeno là dove si millanta la libertà, ovvero nella foresta dove vivono i solitari: un regno primordiale in cui nonostante le difficili condizioni di vita è proibita la solidarietà e – peggio ancora – l’amore. In fuga dall’hotel, David si ritrova in una seconda tirannia, non meno insensata, crudele e punitiva della prima. Due mondi agli antipodi: da un lato la demonizzazione della vita da single, dall’altra quella della vita in coppia. È l’estremizzazione di una situazione che vede l’individuo contemporaneo strattonato da una parte all’altra, tra la ricerca dell’amore a ogni costo – o meglio, la costruzione di una coppia “modello” a prova di social – e la tendenza a non accontentarsi mai, a rinunciare alla ricerca per difendere un ego che sembra sempre meno disposto a spartire le proprie necessità con un altro individuo, o magari a rifiutare la ricerca per la paura del rifiuto. In altre parole un individuo sempre più fragile dinanzi a una società contemporanea sempre più feroce, sempre pronta a inquadrare in degli schemi precostruiti degli esseri umani modello.

Per uno scherzo del destino, è proprio nella foresta dei solitari che David sembra trovare il vero amore, una donna miope interpretata da Rachel Weisz con la quale, dopo mille peripezie, riesce di nuovo a fuggire. E proprio quando The Lobster sembra arrivare a una morale, a un barlume di speranza sulla visione del regista a proposito delle relazioni amorose, ecco che le ultime immagini ci lasciano nuovamente storditi e dinanzi al finale aperto ci si aprono innumerevoli interrogativi. L’amore è davvero una questione di calcolo e compatibilità? È fabbricabile con una serie di falsità e ipocrisie “a fin di bene”? Esiste davvero il – cosiddetto – vero amore? Il film sembra convincerci per tutto il tempo del fatto che la vita di coppia è una pura costruzione sociale fatta di regole scritte e altre non scritte, ma solcate nel nostro DNA morale e sociale, e che quindi la felicità nella vita di coppia è pura utopia. Voi cosa ci vedete in quel finale?

 

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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