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Trucco e parrucco nell’era tecnologica: la macchificazione di Anders

S’è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che il priore del tuo convento potrebbe avere qualcosa da ridire al riguardo.

Spesso mi chiedo quanto davvero conti l’aspetto esteriore di un individuo e se influisce così tanto nel costituire la percezione che gli altri hanno di lui. Ma soprattutto, da quando è diventato importante apparire? È sempre stato così sin dall’inizio della storia dell’uomo?

Günther Anders, filosofo tedesco e autore de L’uomo è antiquato (opera del 1956), ritiene che le cose in fatto di cura della propria immagine abbiano preso una piega diversa con l’avvento della Seconda Rivoluzione Industriale. Tra un aneddoto e l’altro, Anders racconta di come abbia notato crescere, di pari passo allo sviluppo tecnico della macchina, un certo stato di soggezione inquieta dell’uomo nei confronti delle cose da egli stesso fatte: una vergogna prometeica, dice. In soldoni, il creatore di tutto il panorama artificiale terrestre, in grado di sviluppare macchine complesse e intelligenti in continuo e instancabile miglioramento, l’uomo moderno che può innalzare città, sorvolare oceani e bucare l’atmosfera alla volta della Luna, arrossirebbe di fronte alle macchine e ai computer prodotti dalle sue stesse mani e che gli permettono di fare tutto ciò che fa?

Ebbene, sì.

L’uomo è a disagio perché non è macchina: è nato da donna, è mortale e sostituibile nel ruolo che occupa nel mondo (ma non nella sua unicità di individuo), è poco resistente, reattivo, agile e mal verniciato, se messo a confronto con i congegni di ultimissima generazione. L’uomo è uomo e ne soffre.

Anders, a questo punto, rincara la dose: siamo talmente sopraffatti dall’inadeguatezza di questo tipo d’esistenza troppo umana che facciamo di tutto per autoridurci a cosa e, a suo avviso, make-up, trattamenti estetici e nascita di mode kitsch sempre più spinte ne sono l’esempio. La vergogna effettiva dell’homo artifex non sta tanto nell’apparire disadorni o sciatti, quanto nel non sembrare lavorati e rifiniti. Pelle perfetta, muscolatura scolpita, unghia laccata come l’hardware del cellulare che sfiora: vogliamo essere alla pari degli arnesi che dobbiamo maneggiare, delle macchine con cui dobbiamo interagire, della vita soda e levigata della plastica con cui abbiamo a che fare. Il vero corpo nudo non è più quello svestito, ma quello non lavorato e che non contiene indizi di una riduzione a cosa: quando sarà privo di peli superflui e grasso in punti non strategici, allora sì che potrà mostrarsi senza vergogna e senza veli.

La carne è un vezzo vintage, il corpo umano dev’essere superato.

Insomma, Anders ci offre un buffet di spunti notevoli su come sia cambiata la cura del sé carnale nel corso di una certa parte di modernità, ma manca d’analizzare molti aspetti: non si trovano, infatti, riflessioni sull’industria (piuttosto che la singola macchina) della moda e del make-up all’interno di un sistema consumista e volto a influenzare l’utente con massiccia pubblicità; nessun cenno alla massificazione dell’estetica quale disciplina non più legata a doppio filo con l’arte colta, ma materia giornaliera a cui si richiedono canoni di bellezza da suggerire; infine neanche una parola sulle cause-conseguenze psicosociologiche di tutto questo enorme sistema aggrovigliato. Insomma, per quanto interessante possa essere il suggerimento di riflessione, Anders parla da miope: trucco e parrucco sono stati fondamentali sin dopo la preistoria dove, finita la necessità del mero coprirsi, abiti e polveri colorate iniziarono a segnare dei distinguo tra classi sociali, mansioni sacerdotali e militari.

Allora il fulcro del pensiero di Anders potrebbe essere un altro: ci sta dicendo del desiderio dell’uomo di superare e superarsi, d’essere oltre. E non si tratterebbe di un oltreuomo solo in senso morale, ma di un vero e proprio ente ibridato con la macchina, potenziato dal punto di vista fisico e intellettuale, un post-uomo. Appare quindi evidente il motivo del nostro volerci ridurre a cosa: non perché invidiosi della perfezione estetica della macchina, ne bramiamo invece la freddezza razionale, l’infinita memoria, il talento nel di far di conto, l’incapacità di soffrire per il vuoto essenziale che ci riempie e l’inettitudine alla libertà. Credete siano ragioni sufficienti per voler diventare macchina?

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo gradits Ekaterina Kuznetsova su Unsplash.com]

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