Home » Rivista digitale » Sguardi » Società » “Fatti (non) foste a viver come bruti”

“Fatti (non) foste a viver come bruti”

Il titolo è deliberatamente preso in prestito dalla Divina Commedia, canto ventiseiesimo, località Inferno.
Non è mia intenzione analizzare Dante, né sviscerare ulteriori chiavi di lettura dalle sue opere, mi è semplicemente balzata agli occhi quella frase pronunciata da Ulisse per esortare i compagni, rientrati in patria dopo le mille peripezie degne di un’Odissea, a intraprendere l’ultima impresa: attraversare le Colonne d’Ercole e violare così i confini del mondo.

«O frati, che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»¹.

Leggere e rileggere quella frase, estrapolata totalmente dal suo contesto e dalle dinamiche narrative, mi ha convinto dell’esatto contrario.
Noi siamo nati come “bruti”, e dobbiamo prenderci la responsabilità di ammetterlo.

Viviamo in un mondo dove sempre più spesso cerchiamo di scindere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, cosa si può e cosa non si può fare/dire/vedere.
Ci allontaniamo dall’oscurità per abbracciare la luce che avvolge le cose immacolate, senza renderci conto della cecità che il fulgore provoca, senza capire che la penombra non è sinonimo di ambiguità ma strumento per vedere meglio le cose.

“Bruto” vuol dire privo di ragione, violento… e noi di natura spesso lo siamo, non solo fisicamente, ma anche verbalmente e, negli ultimi anni, virtualmente.
Il web è il ricettacolo di commenti cattivi, ma sono lo specchio di ciò che, almeno a parole, vorremmo fare: “Se ci fossi stato io”, “Se ci fosse stato lui”, “Io avrei fatto così”; o vorremmo essere: “Se io fossi il capo del mondo”, “Se fosse successo a me”.
Queste frasi-matrice, state pur certi, undici volte su dieci si completano con una sorta di piccola apocalisse, o una vendetta stile Rambo.

Inizialmente davo colpa alla sola ottusità, ma scavando più a fondo mi sono reso conto che tutto ciò avviene per scarsa conoscenza della violenza stessa.
Pensiamo, crediamo, vogliamo, facciamo finta di essere violenti perché non sappiamo cosa voglia dire violenza, non perché non esista, ma perché è argomento tabù.

Negli ultimi vent’anni abbiamo passato il tempo a prevenire, a proteggere, ad evitare, abbiamo insomma contribuito piano piano a costruire, attorno al nostro piccolo mondo di benessere, una sorta di muro ovattato che ci impedisce di vivere la realtà così com’è.

Tutto molto bello, tutto molto pericoloso.

Succede infatti, che ad un certo punto, qualcuno o qualcosa, quel muro d’ovatta riesce a sfondarlo: ultimamente ci sono riusciti gli attentati terroristici.
Il terrorismo è sempre esistito, l’Italia ne sa qualcosa: la quantità di piombo sparso sulle strade ha dato il nome a un decennio, eppure è solo oggi che raggiungiamo punte di panico incontrollato per il primo bagaglio non custodito lasciato in un luogo pubblico.
E’ solo oggi che leggiamo, complice un giornalismo sensazionalistico irrispettoso, di finte bombe disinnescate dagli artificieri solo per sentirci più sicuri.

Non sto suggerendo di rimanere indifferenti davanti al male, sarebbe comunque un mattone ovattato in più, ma di riscoprirne l’esistenza, e risulta estremamente necessario, vi spiego il perché.

Il parallelismo è azzardato, ma avete presente come funziona lo schema di una fiaba?
C’è un protagonista “buono” e un antagonista “cattivo”; il buono verrà messo alla prova dalla vita stessa che lo farà precipitare in una condizione difficile, ma solo così potrà forgiare il suo spirito per poter sconfiggere il cattivo.
Oggi è come se avessimo esiliato nel dimenticatoio i cattivi – perché diseducativi, portatori di disagio al bambino ecc. – per rendere felici i protagonisti di una storia che si concluderebbe a pagina 2, senza aver lasciato nulla di consistente al lettore.

Abituarsi alla nostra natura di “bruti” infine non ci condanna ad esserlo per sempre, non ci autorizza a compiere danno contro altre persone, può servirci a conoscere meglio ciò che siamo, a capire quali sono i nostri limiti per poterli superare.
Può aiutarci a decidere cosa vogliamo o non vogliamo diventare.
Solo in questo modo, secondo il mio punto di vista, possiamo maturare.

 

Alessandro Basso

Sono nato a Treviso nel 1988, nel 2007 ho conseguito il diploma triennale in grafica multimediale e pubblicitaria all Centro di Formazione Professionale Turazza di Treviso; dopo aver lavorato alcuni anni, ma soprattutto dopo un viaggio in Australia, sono tornato sui libri e nel 2013 ho conseguito il diploma di maturità al Liceo Linguistico G. Galilei di Treviso. Attualmente sono laureando in Storia e Antropologia all’Università Ca’Foscari di Venezia.
Mi piace molto leggere, senza tuttavia avere un genere preferito; i miei interessi spaziano dalla cultura umanistica alla sociologia, e in certi ambiti anche alla geologia.

[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
1. Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv.112-120

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!