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Due parole sull’ateismo di Leopardi

Al prof. Rolando Damiani

L’uomo non ha certezze metafisiche, quindi è disperato: di quest’assioma, Leopardi è indiscusso profeta. La sostanza della disperazione leopardiana si coglie nella formulazione della celeberrima teoria del nulla:

«Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. […] vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere»1.

Analizziamo queste righe. Se (il) nulla fonda (il) tutto significa che:

«Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è, o non sia assolutamente. L’assoluto è dunque voragine che tutto accoglie e tutto annienta, abisso orrido e immenso, ma insieme fonte e sede della forza»2.

Ora, poiché:

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,/καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,/καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος./Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. 3

sembrerebbe che, in mancanza di ragione, manchi anche divinità: se la sovrapposizione tra θεὸς e λόγος è esatta, da questa considerazione non c’è via di scampo.

Ora, se manca la Ragione-Ultima, manca la fondazione-metafisica del tutto: la Ragione è dunque non una presenza, ma piuttosto un’a-ssenza, che possiamo identificare con l’a-ssenza di Dio. Leopardi altresì afferma che Dio è fondato dal nulla: le cose non hanno un’idea platonica che le sostiene, e questo vale anche per Dio, s’Egli è una cosa …

Ma, a proposito di Dio e il suo rapporto con il nulla che lo fonda – e quindi non lo fonda –, Leopardi scrive:

«Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] Ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Io considero dunque Iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] Così resta in piedi tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio»4.

Questa citazione spariglia le carte; chiunque voglia fare di Leopardi un gigante dell’ateismo non si è, evidentemente, preso la briga di leggere queste annotazioni del 1821. Rolando Damiani, in una conferenza dell’ottobre 2014, riguardo il tema della “religione” leopardiana, affermò che, d’essa, occorre parlare:

«In un senso anomalo […] perché in Leopardi la religione non è un fatto né semplicemente confessionale, cioè di adesione confessionale alla dogmatica cristiana, questione che evidentemente per Leopardi si pone solo fino a un certo periodo della sua vita […] e neanche nel senso di rifiuto del religioso in una prospettiva di laicismo ottocentesco, che è uno dei modi per i quali è passata l’accoglienza di Leopardi»5.

Torniamo al dettato di Zibaldone 1619-1621; ivi, Leopardi legge la tradizionale formula di presentazione che Dio fa di sé stesso in Esodo 3, 14, come una dichiarazione ontologica di autosussitenza. Dio esiste in quanto deve esistere e, per riprendere alcune osservazioni fatte da Kierkegaard negli Atti dell’amore, il dover-essere fonda l’eternità dell’essere; Dio deve essere, dunque è eternamente. Avendo in sé la propria ragione necessaria – e sufficiente – d’esistenza, il Dio di Leopardi esiste “in tutti i modi possibili”, ovvero ci appare come ci deve apparire.

Osserva ancora Damiani:

«Nel 1824, cioè nella piena maturità del pensiero, il Dio di Leopardi non è un dio malvagio, è un dio casomai impotente. Un dio che non può fino in fondo essere padrone del manifestato, cioè di ciò che egli stesso ha creato. Perché? Perché al di sopra di lui c’è un potere inconoscibile […] che viene chiamato da Leopardi, tradizionalmente, ‘ordo fatorum’. […] Esso ha a che fare con l’Ἀνάγκη, la necessità […]. Di essa, Leopardi fa un’ipostasi, ma un’ipostasi maligna»6.

Da questo punto di vista, la necessità è un ÜberGott che sovrintende a Dio, ma prima ancora alle cose di questo mondo. In questo quadro, Dio si inserisce come motore, e pro-motore, di quel poco di bene che possiamo rintracciare nella storia: Dio è esperibile nello straordinario, certo, ma anche nella quotidianità del dolore, in cui Egli, pur volendo inserirsi per modificarla, non può:

«Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente: […] Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha stimato conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature»7.

«I suoi rapporti con gli uomini e verso le creature note, sono perfettamente convenienti a essi: sono dunque perfettamente buoni, e migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perché i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti»8.

Il che significa che Dio tenta d’accompagnare le sue creature e lo farebbe, se potesse. Vi è però la Necessità che, in qualche modo, fa resistenza e s’oppone all’assolutà bontà di Dio. Ciò che ciascuno di noi ottiene dal suo rapporto con Dio, è sempre e comunque il massimo che potrebbe avere. Ergo, ciò che otteniamo da Dio come atto d’amore puro, è il massimo che possiamo ottenere: chiedere di più sarebbe sfidare non solo Dio, ma la necessità che lo sovrasta.

L’abisso che ci separa da Dio è incolmabile, vasto, non giungiamo a lui se non saltuariamente. E questa Necessità, che supera Dio e supera l’uomo, questo ordo fatorum, insondabile e invincibile, come lo chiameremo? Lo chiameremo nulla: nulla di buono, nulla di razionale, nulla in ogni forma.

In questo senso dunque, l’Ἀνάγκη – il nulla – fonda tanto le cose del mondo quanto Dio, perché ordina le prime e frena l’azione del secondo. Ma affermare che Dio c’è, ma non può agire, è ben diverso dal dire ch’Egli non (c’)è! Leopardi, esattamente come l’ultimo Sartre (ricordate la famosa intervista a Lèvy del 1980?) non era un ateo, piuttosto il testimone disincantato d’una sorta di “eclissi contemporanea del divino”.

Leopardi sentiva la mancanza di Dio. N’era ossessionato. Lo cercava nelle forme del rito tradizionale (come dimostra l’ultima lettera prima della morte a Monaldo, in cui afferma d’essersi confessato e comunicato) ma faticava a scovarlo, assuefatto com’era dal “piacere fremebondo della disperazione”.

David Casagrande

PS: consiglio a tutti la lettura de L’ordine dei fati e altri argomenti della religione di Leopardi, scritto da Rolando Damiani per Longo Editore, 2014.

NOTE:
1. Zibaldone 1341-1342 (18 Luglio 1821), a cura di R. Damiani, ed. Mondadori – I meridiani, tomo I, pp. 971-972.
2. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Biblioteca Economica Laterza, Roma-Bari 1995, p. 142.
3. Gv 1, 1-3.
4. Zibaldone 1619-1621, ed. cit., pp. 1135-1136.
5-6. Video: La “Religione” di Leopardi. ROLANDO DAMIANI al Caffè Letterario di Lugo.
7. Zibaldone 1637, ed. cit., tomo I, p. 1146.
8. Zibaldone 1621, ed. cit., tomo I, p. 1136.

 

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