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Intervista a Dacia Maraini: l’arte come fondamento della vita

Nata da una famiglia di scrittori, Dacia Maraini è destinata a seguire la medesima strada. Circondata da libri, la sua voglia di leggere e scrivere è cresciuta naturalmente: una nonna inglese, gran viaggiatrice, scriveva di viaggi; un padre, autore di libri sull’Estremo Oriente, scriveva sempre in sua presenza. Un’infanzia travagliata, contrassegnata dalla guerra, dai campi di concentramento giapponesi, dove la povertà e la fame sono alla base del vissuto quotidiano. La famiglia, una volta tornata dal Giappone si stabilisce in Sicilia, dove Dacia conosce per la prima volta la Mafia, sulle quali esprimerà le proprie impressioni e ricordi nel libro Bagheria.

Le sue prime righe però appaiono sul giornalino della scuola Garibaldi di Palermo, dove con le due sorelle frequenta il liceo, prima di trasferirsi a Roma dal padre. Da quel momento la sua scrittura ha un  crescendo. Nella capitale, l’autrice percorre i suoi primi passi nel mondo della letteratura italiana, pubblicando il primo romanzo La vacanza dove affronta il tema della gioventù in fase adolescenziale. Negli anni successivi seguono numerosi altri romanzi, in cui vengono trattati differenti temi. È doveroso citare i più fortunati: La nave per Kobe, in cui viene rievocata la sua esperienza nei campi di concentramento giapponesi; il sopracitato Bagheria, dove per la prima volta Dacia decide, dopo anni di rinvii, di parlare della sua Sicilia; e La lunga vita di Marianna Ucrìa, romanzo che vinse il Premio Campiello e che tratta delle problematiche di una giovane nobildonna sordomuta nella Sicilia del primo Settecento.

Inizialmente collaboratrice di diverse riviste, quali Paragone, Nuovi Argomenti e il Mondo, decide di fondare assieme ad altri giovani la rivista letteraria Tempo di Letteratura. I suoi interessi però sono vari, così la vediamo occuparsi anche di teatro, fondando assieme ad altri scrittori il Teatro del Porcospino, e successivamente il Teatro della Maddalena, gestito e diretto solamente da donne, all’interno della quale scriverà la maggior parte dei testi teatrali rappresentati. Il suo interesse per il mondo femminile è talmente forte che decide di occuparsi di questo tema anche nei suoi libri, inizia così la sua lotta contro il femminicidio, contro le violenze e i soprusi verso le donne. Con maestria e affetto parla di grandi donne quali Chiara d’Assisi, Marianna Ucrìa ed anche di Mme Bovary, del suo rapporto d’amore-odio con il suo creatore, Gustave Flaubert.

Nella Roma della sua generazione, c’era la straordinaria possibilità di conoscere artisti di qualsiasi genere semplicemente bevendo un caffè al bar. Le arti in questi luoghi si scambiavano informazioni e si creava una sorta di commistione tra loro. In tutto questo reciproco scambio, cosa può dire di aver acquisito che abbia contribuito a modellare i suoi lavori?

Fino agli anni 70 c’è stato un sentimento della comunità degli artisti, i quali si incontravano, come ho più volte raccontato, nei caffè e nei ristoranti per conoscersi meglio, per solidarizzare, per parlare del più e del meno, senza nessuno scopo preciso che non fosse la gioia di sentirsi parte di un mondo povero ma pieno di idee e di progetti. A me ha insegnato che fra artisti è bene solidarizzare, non farsi la guerra e soprattutto non scivolare nella competitività che sembra regnare nei nostri giorni.

Al giorno d’oggi le persone vengono valutate dalla società a seconda di quanto possiedono e dalle conoscenze che hanno. Secondo lei, si può ancora credere nel diritto alla povertà come forma di liberazione interiore ma anche dai bisogni materiali, difeso da Chiara d’Assisi? E come potrebbe essere trasposto questo principio nella ‘modernità’?

La povertà è una parola ambigua, per molti significa miseria, per altri mancanza di benessere. Più che di povertà, parlerei di sobrietà, ovvero accontentarsi di quello che serve senza cercare il sovrappiù, senza pensare che la ricchezza dia felicità e serenità. Imitare Santa Chiara è impossibile. La sua era una povertà voluta fortemente, era un sacrificio severo, al limite dell’eroismo. Come ho detto, mi fermerei alla sobrietà e alla misura.

Il rapporto che aveva Flaubert con la sua Mme Bovary l’ha colpita talmente da portarla a scrivere un libro al riguardo. Egli insegue quel suo personaggio, tanto da identificarvisi e affermare «Mme Bovary c’est moi», ma ad un certo punto si accorge di essersi troppo immedesimato e ne prende le distanze con rabbia. Le è mai capitato di identificarsi in modo pericoloso ad uno dei suoi personaggi?

Sinceramente no. Mi sono spesso identificata con i miei personaggi, ma non me ne sono mai pentita. Il fatto è che Flaubert, con tutta la sua genialità, era prigioniero di una forma di misoginia che lo portava a disprezzare il personaggio che aveva troppo amato.

Quando creò il teatro delle donne, diede la possibilità a chi non aveva voce di farsi sentire. La parte creativa del Teatro della Maddalena venne appunto assegnata principalmente a donne. Da poche settimane si è conclusa la 73esima edizione del cinema di Venezia che ha ospitato tre registe italiane. Se pensa al presente, si può dire che le donne abbiano più spazio nel mondo teatrale e cinematografico, che non comprenda necessariamente la recitazione?

Di attrici ce ne sono sempre state. Quello che mancava quando abbiamo fondato la Maddalena era la presenza di drammaturghe e di registe. Allora esisteva solo Franca Valeri che scriveva per il teatro, ma non veniva presa sul serio, la consideravano una attrice comica e basta, mentre oggi le si riconosce anche un grande talento di autrice. Noi abbiamo fatto un teatro in cui si dava spazio alle donne perché si esprimessero in prima persona come registe e come drammaturghe. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Tante registe sono nate e cresciute nel mondo del cinema e del teatro. Non so quanto abbia contribuito il teatro della Maddalena alla moltiplicazione delle donne nel mondo dello spettacolo, ma certo qualcosa ha fatto in questo senso.

Suo padre, in Giappone, per dimostrare il suo valore si tagliò un dito e lo gettò in faccia agli aguzzini, riuscendo in tal modo ad avere una prigionia meno crudele per lei e la famiglia. Quale può essere considerato il suo gesto estremo? Quel momento in cui decise di prendere in mano la sua vita e di essere ciò che voleva, superando gli orrori della sua infanzia?

Mio padre conosceva molto bene la storia e la cultura giapponese tradizionale e questo gli ha permesso di agire entrando in profondità nella mentalità dei poliziotti guardiani del campo di concentramento. Il taglio del dito, chiamato yubikiri, appartiene alla tradizione samurai e crea nel nemico una obbligazione e inoltre è un atto di coraggio che impone al nemico un certo rispetto. Non a caso i poliziotti che non avevano mai risposto alla richiesta di più cibo per le bambine (tre figlie di sette, cinque e due anni), dopo lo yubikiri ci hanno portato una capretta che faceva due o trecento grammi di latte al giorno. Quel latte ci ha salvato la vita.

Lei è nata in una famiglia di scrittori, dunque prima di tutto lettori. In un’intervista affermò che ha imparato a scrivere proprio perché aveva letto molto: come mai le due cose sono così legate? Perché c’è questo rapporto indissolubile tra le due, che porta una persona a non poter scrivere se prima non è stato lettore?

In tutte le arti è così. Non basta il talento ma ci vuole conoscenza e preparazione. Pensi alla musica: nessuno penserebbe che, dotato di una buona voce ed essendo intonato, potrebbe andare a cantare l’Aida sul palcoscenico. Con la letteratura nasce l’equivoco di chi pensa: io parlo e quindi scrivo. Senza capire che come nelle altre arti, fra il parlare e lo scrivere c’è una grande differenza. Il talento è un fatto naturale, l’arte, come dice la parola stessa, è un artificio ed ha bisogno di conoscenza e preparazione.

Noi riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere ritiene che la filosofia possa avere un ruolo importante?

Nel senso che dice lei, ovvero la filosofia intesa come motore di “ogni riflessione e ricerca di senso”, certo che è importante per la scrittura.  Ma direi che è qualcosa di più della pura filosofia, addirittura un modo di pensare, di riflettere e di interpretare la realtà che comprende tutta la cultura di un popolo.

 

Coscienti del fatto che non si possa riassumere l’essenza di un’autrice di così grande talento e forza interiore in queste poche righe, si può solo arguire che nella vita, sono proprio le esperienze più dolorose a plasmarci e farci diventare le persone che siamo. Dacia Maraini dall’esperienza del campo di concentramento non si è lasciata affondare come una nave nella tempesta, bensì il suo carattere si è temprato e in un certo modo rafforzato. Forte di questo doloroso evento e con un bagaglio culturale letterario degno di nota, ha saputo ricavarsi uno spazio nel mondo come pochi sarebbero stati in grado. Parte importante nella scena artistico-culturale italiana degli anni ’30, ha portato avanti con fermezza, agendo in prima persona, le sue idee per poter migliorare la condizione della donna nel suo paese, esprimendosi attraverso la poesia, la saggistica, il teatro e la narrativa. Un’autrice che ha un rapporto speciale con i suoi personaggi, che passano nella sua vita, alle volte congedandosi, altre volte soffermandosi. Sono proprio i personaggi che le fanno compagnia «prendendo un the», come sostenuto da lei stessa in un’intervista passata, che sono degni di essere raccontati, che chiedono in prima persona che la loro storia venga scritta. Grazie alle sue riflessioni possiamo concludere con l’idea che sia fondamentale la lettura alla base della scrittura, poiché chi legge diventa a sua volta scrittore, identificandosi nella storia e personalizzandola con il proprio vissuto. Ma soprattutto che la scrittura sia importante poiché, dato che il pensiero di per sé si dissolve, è importante poterlo fissare, poterlo divulgare.

Laura Cogo

Laura Cogo. Classe 1991, di origine padovana, dopo aver studiato lingue al liceo prosegue gli studi linguistici conseguendo la laurea triennale in Lingue, Letterature e Culture Moderne in terra natia. Segue poi il suo cuore iscrivendosi alla magistrale in Editoria e Giornalismo a Verona, concentrandosi sul curriculum editoriale, sperando di trovare il suo posto in mezzo ai libri. Cassiera e grafica a tempo perso, è inguaribilmente ossessionata dalla cucina, dai libri, dai cervi e da un bel bicchiere di vino.

[La fotografia-ritratto dell’autrice è realizzata da Giuseppe Moretti]

Nota: Questa intervista ci è stata rilasciata dall’autore in occasione di Pordenonelegge.

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