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Verità e approssimazione: perché gli alieni potrebbero scambiarci per scimpanzé

Gli studi di biologia e di genetica ci hanno insegnato, ormai da tempo, che la nostra specie (Homo sapiens) condivide con gli scimpanzè (pan troglodytes) il 98,5% del patrimonio genetico (C. Tuniz, P. Tiberi Vipraio, La scimmia vestita 2020). La differenza fra queste due specie è sorprendentemente piccola, da un punto di vista statistico. Partendo proprio da questo dato, invito il lettore ad un piccolo esperimento mentale. Supponiamo che sia l’umanità che gli scimpanzé, per qualche ragione, scompaiano improvvisamente dalla Terra. Poco tempo dopo una specie aliena, simile a noi dal punto di vista mentale, nonché tecnologicamente avanzata e capace di leggere e interpretare correttamente la nostra cultura scientifica e storica, scopra questa percentuale di “somiglianza” genetica fra gli esseri umani e i primati. Come già accennato, dal punto di vista statistico, gli alieni potrebbero sostenere che si tratta di due specie pressoché identiche, se non addirittura la stessa.

Calato in un altro contesto, dire che qualcosa la si fa al 98,5% (anche se generalmente si dice al 99%) significa concedere una possibilità assai remota che quel qualcosa abbia dei problemi tali per cui non possa andare a buon fine. Generalmente lo si dice, appunto, quando si è praticamente certi che qualcosa accada.

Questo dato ci mostra come, tuttavia, anche nella rigorosità del metodo scientifico vi sia un approssimarsi alla realtà senza che questa possa essere colta così com’è (cfr., fra gli altri, K. Popper, Logica della scoperta scientifica, 1970). Si tratta di una consapevolezza che scienziati e filosofi della scienza (o chiunque segua un metodo scientifico) sanno, una verità che tengono bene a mente. Tale approssimazione può avvenire, generalmente, per due ragioni: per mancanza di osservazioni sperimentali atte a confermare una certa teoria, o per mancanza di un linguaggio appropriato, in grado di descrivere un certo fenomeno in maniera esaustiva. A titolo di esempio si pensi al paradosso quantistico del gatto di Schrödinger: posto all’interno di una scatola insieme ad un meccanismo in grado di rilasciare del veleno nocivo, il cui sistema di avvio dipende dal decadimento di un atomo radioattivo che lo azionerà (ma non si sa quando), è possibile concludere che l’animale sia vivo e allo stesso tempo morto. Questo stato sarà tale finché nessuno aprirà la scatola per osservare le condizioni del nostro povero gatto (si ricorda al lettore che si tratta di un esperimento mentale, e che non è mai stato compiuto davvero). Senza addentrarci in questioni di fisica dei quanti è evidente come delle volte sia necessario, anche con il massimo della rigorosità scientifica, l’utilizzo delle metafore per descrivere una realtà concettualmente “indisponibile” al nostro intelletto nell’esperienza di tutti i giorni. Sebbene la matematica, in particolare dai primi del Novecento, sia venuta in soccorso alla fisica nella descrizione di realtà “impossibili” da immaginare comunemente, se non descritte tramite equazioni, lo stesso Einstein di domandava quanto questo fosse specchio del reale:

«Com’è possibile che le matematiche, le quali dopo tutto sono un prodotto del pensiero umano, dipendente dall’esperienza, siano così ammirevolmente adatte agli oggetti della realtà? È forse la ragione umana, indipendentemente dall’esperienza, e solo col pensiero, capace di toccare a fondo le proprietà del reale?» (A. Einstein, Geometrie ed esperienze, 1921)

Un tale quesito, così squisitamente filosofico, non ha ancora trovato risposta. Determinare la verità nel reale pare un fardello quasi impossibile da risolvere ma con cui lo scienziato e il filosofo non possono fare a meno di avere a che fare. Tali dissertazioni si ripercuotono sul nostro quotidiano e sul nostro linguaggio, ma anche sul modo in cui immaginiamo possa funzionare il mondo. Naturalmente – è bene ribadirlo – la scienza non ha la pretesa di etichettare come verità i prodotti delle sue ricerche o il modo con cui osserva la natura, ma il suo approssimarsi al reale (in altri termini: il tentativo di cercare la verità) spiega indirettamente quella minuscola differenza dello 1,5% di patrimonio genetico fra noi e gli scimpanzé. Questo potrebbe essere utile un giorno futuro, nel caso una specie aliena venuta a trovarci ci chiedesse in cosa ci distinguiamo, di preciso, dai nostri cugini primati, dato che ai loro occhi potremmo apparire pressoché identici…

 

Stefano Aranginu

 

[Photo credit Francesco Ungaro via Unsplash]

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