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Riflessioni stirneriane: è possibile ripensare il reale?

Max Stirner, malgrado spesso dimenticato dalla tradizione occidentale oppure ricordato come il pensatore del nichilismo, dell’annientamento dei valori o di qualsiasi assetto sociale, è invece in grado di aiutarci a rivalutare la contemporaneità. La pervasiva critica stirneriana, infatti, è volta non tanto a lasciare l’uomo in balìa del nulla ma scoprire cosa sia l’uomo e proprio per questo, per quanto L’Unico e la sua proprietà inviti a diffidare e liberarsi della maggior parte dei concetti con cui giudichiamo il mondo, in virtù di ciò invita a riconsiderare e ricostruire l’esistente. Critica, quindi, intesa come strumento di rivalutazione del mondo e suo riorientamento per evitare di fissare in concetti sclerotici un mondo in continuo mutamento.

Quello che può sembrare un discorso prettamente teorico ha, invece, un valore eminentemente pratico. Ciò che Stirner esige da noi, infatti, non è tanto una speculazione intorno a ciò che ci circonda, ma mettere attivamente in discussione le categorie che utilizziamo per giudicare il mondo. Siamo davvero sicuri di sapere, ad esempio, cosa significhi per noi, nel nostro momento storico e nelle nostre particolari condizioni sfruttamento? Siamo davvero certi di saperlo effettivamente riconoscere e, quindi, combattere? L’idea di bambini sfruttati, di condizioni di lavoro disumane, fa trasalire tutti noi e – giustamente – ci disgusta. Abbiamo condotto battaglie per eliminare lo sfruttamento dal nostro mondo, crediamo persino di averle vinte, non vedendo più quello spettacolo raccapricciante attorno a noi. Come ci poniamo, allora, nei confronti dei nostri acquisti presso note catene di fast fashion che propongono proprio quei modelli di sfruttamento che troviamo atroci? Sembriamo non considerarli sfruttamento, anche complice il fatto che, si sa, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Pertanto. l’operazione teorica che Stirner ci suggerisce – e che diventa poi pratica incessante – è quella di cercare liberare l’uomo dal di più che lo copre. Proprio come per scoprire cosa si trovi sotto uno strato di polvere dobbiamo rimuovere ciò che nasconde ai nostri occhi l’oggetto, la critica cerca di rimuovere tutto ciò che copre e soffoca l’uomo, vincolandolo a modelli ideali che non gli permettono di esprimere la propria reale individualità. Nella prospettiva stirneriana infatti tanto lo Stato, quanto la maggior parte delle relazioni interpersonali sono costruite a partire da modelli con cui l’uomo si misura, senza rendersi conto che, però, non gli appartengono, perché sono modulati su concetti astratti che non vengono di volta in volta elaborati su quanto ci viene offerto.

Lo Stato, la religione, quindi in questa prospettiva, non sono conquiste che l’uomo singolo fa e che può sentire realmente come proprie, ma vincoli in cui si trova incatenato a priori, senza che gli appartengano, e che lo frenano dal riscrivere il reale. E’ importante precisare che, più che rifiutati acriticamente, questi concetti vanno vagliati continuamente, rivalutati, in modo tale da essere vere e proprie acquisizioni, non solo modelli stereotipati. Ciò implica quindi accettare le sfaccettature attraverso cui il mondo si presenta, rivalutando persino dei comunissimi termini – famiglia ad esempio – che siamo piuttosto certi abbiano un significato piuttosto univoco. Perché non ripensarli, per poi poter agire di conseguenza? Quante volte, sentiamo che è non famiglia ciò che rigorosamente risponde al modello astratto che ne abbiamo, ma che per noi sono famiglia persone a cui non siamo vincolati tramite nessun legame di sangue?

Liberato, quindi, da tutto ciò che non gli appartiene, cosa rimane all’uomo – o come lo chiama Stirner per liberarlo da qualunque eredità ideologica – all’Unico? Nient’altro che sé stesso, inteso come ciò che ogni individuo è, ciò di cui dispone nello stato presente delle cose. «Il vero uomo non sta nel futuro, quale oggetto a cui anelare, ma è esistente e reale nel presente. Comunque e chiunque io sia, felice o infelice, bambino o anziano, sicuro o dubbioso, desto o addormentato, io lo sono già: sono l’uomo vero»1. Il vero uomo è il singolo, con le sue caratteristiche e debolezze, come unico ed inevitabile punto di partenza da cui non è possibile allontanarsi.

Ciò, è interessante osservare, non conduce alla solitudine, all’isolamento degli uomini. Se, infatti, la maggior parte delle relazioni – inteso il termine relazione nel modo più ampio possibile – è fondato su presupposti ideali, è anche vero che il riconoscimento della dimensione originaria dell’uomo come Unico, permette all’unione di far riposare il proprio fondamento sul riconoscimento dell’altro in quanto individuo particolare, non come astrazione. In questo modo ognuno trova lo spazio per poter essere sé stesso istante dopo istante, non trovandosi imbrigliato in giudizi vincolanti.

Questa sospensione e rivalutazione dei rapporti, permette di ricalibrare le proprie relazioni e di considerarle al di là dell’etichetta con cui le classifichiamo. Se si decide, così, di prendersi cura di un altro, ciò non accade in virtù di un generale ed imposto sentimento di amore nei confronti dell’umanità, ma perché «a me fa male il suo dolore»2. Perché, in modo originario, sento che la sua sofferenza – su cui mi soffermo senza pregiudizi – è anche la mia.

«Forse non devo provare mai un vivo interesse per la persona di un altro? […] Al contrario, io posso sacrificargli con gioia innumerevoli piaceri miei, posso rinunciare ad innumerevoli cose pur di veder fiorire il suo sorriso e posso mettere a repentaglio per lui quello che, se lui non ci fosse, sarebbe la cosa più cara al mondo: la mia vita, o il mio benessere o la libertà»3.

 

Lisa Bin

 

Lisa Bin, dottore in filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste, ora frequenta il corso di laurea magistrale in filosofia presso l’Ateneo Pavese ed è alunna del Collegio Ghislieri. Tra i suoi interessi principali troviamo il pensiero anarchico e la filosofia del diritto.

 

NOTE:
1. Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 2017, p.342.
2. Ibidem, p.305.
3. Ibidem, p. 304.

[Photo credit Camilla Fassina]

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