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perdita della abitudine

Il virus dell’abitudine. Lettera a mia figlia

Impara a disabituarti.
Oggi compi diciott’anni e il solo consiglio che mi viene in mente di darti è questo, di perdere l’abitudine. Disabituati, a stare bene, ad avere la macchina, ad un tetto sulla testa, ad un letto dove dormire, a mangiare tutti i giorni, ad avere un amico, ad avere una famiglia, ad essere sempre in compagnia di qualcuno. Disabituati all’amore, alla felicità, alla speranza. Abbraccia il disinganno, fidati – questo sì – del prossimo e il prossimo si fiderà di te, ma il più delle volte, le decisioni più importanti della tua vita dovrai prenderle da sola, nel segreto di una stanza, nel buio più profondo di una giornata senza sole.
Leggendo queste parole penserai che tuo padre è un pessimista più che cosmico, galattico, uno di cui Leopardi non è che un rudimentale copiatore. Diciott’anni, tu pensi a organizzare la festa mentre io ti faccio la paternale! Quasi mi sembra di sentirti mentre discutiamo lanciandoci frasi fatte, scritte in un copione senza tempo letto e riletto da generazioni di padri e figli. Tu che sbuffi, che sbatti la porta a una conversazione che non avrà mai un inizio o una fine.

Ma questa non è una paternale, un giudizio alla tua età e alla tua voglia di sbagliare. Ti ho incoraggiato a camminare, ad andare in bicicletta, ad allacciarti le scarpe, a leggere l’ora, a scrivere bene il tuo nome, a disegnare, già mi chiedi di portarti in giro a guidare… ma per quanto il mio ruolo lo richieda non posso insegnarti a vivere.
Vivere è una cosa strettamente personale, intima. Chiunque dica il contrario è solo un pallone gonfiato, incapace di vivere egli stesso e per dare un senso ai suoi fallimenti pensa di poter gestire quelli degli altri. Posso solo darti consigli, ma il libero arbitrio è soltanto tuo, così come la coscienza, la responsabilità, la capacità di scegliere cosa è giusto e cosa invece è sbagliato.
Il mio consiglio spassionato è questo dunque, disabituati.

Quando l’ho imparato? Nel ‘20, quando eravamo tutti chiusi in casa, prigionieri di un virus venuto da lontano. Ti ho già parlato dell’autoisolamento, della quarantena, delle strade deserte e di quelli che cantavano alla finestra, quando eri piccola te ne ho parlato sottoforma di favola, poi sottoforma di ricordo; ora ti parlo di cosa c’era dietro quelle finestre, nelle case, nella mente della gente.

La maggior parte delle persone era abituata a tutto, alla routine insomma, quella a cui sei abituata anche tu; l’abitudine era un punto fermo. Già due giorni dopo l’inizio di tutto, le prime striscianti lamentele si sono insinuate nell’umore generale, poi sono seguiti gli sfoghi e l’esasperante ricerca di una possibile verità tenuta nascosta da qualcuno o da qualcosa. Sono arrivati i complottisti, i tragici, i melodrammatici, gli apocalittici. Ogni volta la colpa era di qualcuno, di uno stile di vita, oppure c’era lo zampino del divino punitore, della natura vendicativa.
L’insofferenza – sorriderai – della gente si manifestava negli appelli a rimanere a casa, nelle delazioni di improvvisati detective dei poveri, pronti a fotografare il trasgressore uscito a gettare l’immondizia. L’egoismo poi, quello di chi comprava lievito in quantità atomica “perché non si sa mai…”, che poi forse avrebbe congelato e poi sicuramente buttato pur di lasciare ad altri il pane azzimo della sconfitta.

La paura del prossimo nata dall’abitudine di essere individuali in una società fin troppo egocentrica.
Non ascoltare quelli che te la raccontano come una guerra. Sì, è stata dura, sì, ci sono state molte vittime, e c’era la paura di ammalarsi. Già, ma vedi, quella c’era anche prima, la paura di ammalarsi intendo, così come la paura di restare soli, la paura degli altri, la paura dei diversi, la paura di non riuscire a vivere una vita perfetta, di non avere più alcuna soddisfazione, la paura di perdere qualcuno e di dirgli addio.
Volevamo vivere fino a 120 anni per paura di non avere il tempo di fare tutto, volevamo trattenere il mondo perché così eravamo abituati ad agire.

Tu non lo fare, non dare mai nulla per scontato, non lasciare che l’ovvio si faccia largo nelle tue giornate, lascia andare qualche tua abitudine. Sorridi alla sorpresa, all’imprevisto, non cadere di proposito ma quando cadrai – perché cadrai – rialzati, arrabbiati se vuoi, ma poi ritrova il sereno dentro di te e armati di tanta, tanta pazienza.

Un bacio,
papà

 

Alessandro Basso

Sono nato a Treviso nel 1988, nel 2007 ho conseguito il diploma triennale in grafica multimediale e pubblicitaria all Centro di Formazione Professionale Turazza di Treviso; dopo aver lavorato alcuni anni, ma soprattutto dopo un viaggio in Australia, sono tornato sui libri e nel 2013 ho conseguito il diploma di maturità al Liceo Linguistico G. Galilei di Treviso. Attualmente sono laureando in Storia e Antropologia all’Università Ca’Foscari di Venezia.
Mi piace molto leggere, senza tuttavia avere un genere preferito; i miei interessi spaziano dalla cultura umanistica alla sociologia, e in certi ambiti anche alla geologia.

[Photo credit via Pixabay]

 

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