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Le vicissitudini cliniche di Dio

Dio è veramente morto? Cosa significa la provocatoria affermazione che l’uomo folle Nietzscheano propone in Così Parlò Zarathustra e ne La Gaia Scienza1? Quale l’origine del successo che l’ha portata ad essere pressoché universalmente nota? Andiamo con ordine. Il paradosso è un elemento retorico tipico dell’estetismo da Oscar Wilde a Nietzsche, esso è usato per sorprendere e catturare il lettore, s’imprime nella mente e fa sussultare i bacchettoni, ma l’espressione a cui ci riferiamo non è un paradosso, è una vera e propria contraddizione. Infatti se una cosa muore in precedenza esisteva e viveva, ma se è Dio ad esistere e vivere allora per definizione esso non può morire (definitivamente).

La matassa delle interpretazioni percorribili data dalla vibrante polisemia della poetica aforistica di Nietzsche può essere svolta secondo due possibili soluzioni della contraddizione. La prima: Dio non è mai esistito, si è squarciato il cielo, ci siamo risvegliati dal placido sonno metafisico e la sua morte è in realtà la presa di coscienza di ciò che da sempre è: l’assurda insensatezza dell’universo e di ciò che in esso si agita tra la culla e la tomba. La seconda interpretazione: Dio è qui inteso come lo Spirito Santo, che secondo un’interpretazione delle scritture diffusa in ambito tedesco e propria anche di Hegel è incarnato nella comunità degli individui, nei rapporti che regolano la convivenza tra gli esseri umani, nell’eredità di Cristo che simbolicamente è rivissuta nella messa, nell’atto di spezzare il pane e versare il vino. In questo caso la morte di Dio, è la fine di un orizzonte di senso comune entro cui gli uomini si trovano ad essere uniti in società, la fine di una sincronia negli scopi e nella visione del mondo, di un’identità personale prima che sociale.

Nel percorso tracciato da Giambattista Vico la storia dell’umanità inizia da un fulmine che il bestione umano vede come espressione di un dio a cui sottomettersi, il sacro timore provato da quegli antenati ricchi di sensibilità, ma incapaci di pensiero astratto, è la scintilla da cui sorge il diritto e la società umana2. Nella stessa religione cristiana Dio “morì e fu sepolto” per risorgere3, agli ebrei è imputato di averlo ucciso. In filosofia il primato della teorizzazione di un valore speculativo di questa figura religiosa è già negli scritti giovanili di Hegel, per Hölderlin, che più di chiunque è vicino al senso dell’espressione di Nietzsche, gli dei si sono ritirati, abbandonandoci ad essere segni insignificanti4.

In questo secondo senso la morte di dio del proclama di Nietzsche è quanto meno problematica, se per qualcuno Dio è morto per far spazio agli dei5 non lo è e non può esserlo per la grande maggioranza di individui che abita il senso comune, per coloro che, nonosttante tutto, si riconoscono ancora nella definizione di animali sociali. Nei fatti la montagna ha partorito un topolino, la crisi che la religione ha vissuto negli ultimi due secoli circa, si è espressa con un forte processo di secolarizzazione in continuità non in rotta con il passato. Da una credenza esplicita nel divino ad una credenza implicità, preconscia di un dio secolare, un coacervo di valori. Ad ognuno il suo, ma per quasi tutti lo stesso.

Francesco Fanti Rovetta

NOTE
1 “Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!” Nietzsche, La Gaia Scienza, aforisma 125.
2 G. Vico, Scienza Nuova.
3 Simbolo niceno-costantinopolitano.
4 “Noi siamo un segno insignificante,/indolore, quasi abbiamo perso/ nell’esilio il linguaggio./…” Hölderlin, Mnemosyne, seconda stesura.
5 ”Questo accadde, quando la più empia delle frasi fu pronunciata da un dio stesso, questa: Vi é un solo dio! Non avrai altro dio accanto a me! Un vecchio dio barbuto e burbero, un dio geloso trascese a questo modo: e allora tutti gli dèi risero e barcollarono sui loro seggi e gridarono Ma non é proprio questa la divinità, che vi siano dei ma non un dio? Chi ha orecchi intenda.” Nietzsche, Così Parlò Zarathustra.

 

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