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Intervista a Umberta Telfener

“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

Umberta Telfener, psicologa clinica è laureata in psicologia e in filosofia. Ha lavorato per 10 anni in un Servizio di Salute Mentale, collabora con la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma ed è didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Ha scritto tra gli altri volumi: Sistemica, voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri Torino 2003; Apprendere i contesti, strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro, Cortina editore, Milano 2011; Le forme dell’addio, effetti collaterali dell’amore, Castelvecchi, Roma 2007; i citati Ho sposato un narciso, Castelvecchi editore, Roma 2006 e Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri 2014. Potete seguirla sul blog Le forme dell’amore,  per  Io Donna.

Lei è laureata in filosofia. Quali motivazioni alla base della sua scelta?
Quando mi sono laureata in filosofia la facoltà di psicologia non esisteva ancora benché già sapessi di essere interessata alla psicologia. Quando è stata aperta la sede di Roma di Psicologia ero al terzo anno di filosofia ed ho deciso di continuare e finire. A quel punto mi ero appassionata a Dewey e agli aspetti di filosofia della conoscenza che più tardi comincerò a chiamare “epistemologia” e che sono stati il filo trasversale di tutto il mio percorso anche clinico. Mi sono poi iscritta a psicologia e ho iniziato ex novo un’altra facoltà ma la laurea in filosofia mi ha fatto procedere molto più speditamente.

Per noi de La Chiave di Sophia la filosofia non è quella materia di serie B che crea solo disoccupazione. E lei ne è un perfetto esempio. Come crede possa la filosofia essere tutelata dalla società?
La filosofia è fondamentale per apprendere lo sguardo nel vivere. Per me l’epistemologia è stata l’interesse di una vita e credo che abbia costituito il valore aggiunto del mio lavoro clinico. Non si tratta di studiare un filosofo oppure un altro – personalmente mi definisco costruttivista e sono interessata ad autori quali Rorty, Deleuze, Foucault, Varela che non ho certo studiato all’Università – quanto ritengo fondamentale l’atteggiamento verso la conoscenza. Ho la consapevolezza che è lo sguardo, sono le premesse che determinano ciò che si farà emergere da uno sfondo. Per questo considero filosofi anche uomini e donne di scienza che hanno riflettuto sulla vita, come Bateson e Heinz von Foerster. Per rispondere alla sua domanda direi che non sono i singoli autori che vanno sottolineati quanto il metodo filosofico, l’attenzione alle premesse e la conoscenza della conoscenza.

Mi può fare tre esempi pratici di come applica la filosofia alla sua vita?
Nel lavoro clinico mi occupo precipuamente delle premesse che determinano i comportamenti dei miei utenti: i pregiudizi che li limitano, le idee perfette che li organizzano, i presupposti che li guidano. Contemporaneamente presto attenzione a quali siano le categorie con le quali io stessa mi avvicino ad una situazione problematica e sono pronta a cambiare le mie categorie qualora i feedback che ricevo mi indichino che la situazione è in stallo oppure non evolve.
Penso che costruire ipotesi, scegliere percorsi e pensare soluzioni non sia limitato alle caratteristiche del sistema osservato. Le soluzioni emergono dalla decostruzione di idee e comportamenti ed implicano tutti i partecipanti al processo: l’individuo che chiede aiuto, i suoi familiari reali o fantasmatici, io stessa e tutti gli operatori che collaborano consapevolmente o meno alla costruzione del sistema semantico determinato dal problema. Chiamo questo “il sistema osservante” che mi include inesorabilmente.
Ogni definizione di un problema non può essere giusta o sbagliata in senso assoluto. La riflessività diventa lo strumento attraverso il quale agire/operare/pensare in maniera etica. Intendo per riflessività un modo di riproporre la propria esperienza a se stessi in modo da pensare e riflettere sulle azioni che sono emerse dalle azioni che abbiamo fatto già. Si tratta della capacità di utilizzare se stessi per interrogare se stessi in relazione alla danza con se stessi e con altri, Questo me lo ha insegnato la filosofia e il mio ultimo libro clinico lo esemplifica molto efficacemente (Bianciardi M., Telfener U., Ricorsività in psicoterapia, riflessioni sulla pratica clinica, Bollati Boringhieri, Torino 2014)

Quali sono le dinamiche che scattano tra narcisismo patologico e social network? Come questi ultimi influenzano il narcisismo patologico?
I social network sono una ottima e utile vetrina e permettono di tenere i piedi in più staffe, di presentare un aspetto ottimale di sé. Permettono cioè di presentarsi splendidi e splendenti, negando i propri lati bui, oppure di chiedere insistentemente di venir salvati dall’interlocutore di turno. Permettono la velocità, la polifonia, la frammentarietà, il controllo, insomma sono strumenti ideali per lanciare ami e ricevere conferme. Sono sempre stupita di come – purtroppo soprattutto le donne, ma non solo – si tenda a rispondere ai narcisismi delle persone colludendo e confermando la loro grandiosità, in un processo di esaltazione della personalità molto spesso ridicola.
Vorrei comunque portare la vostra attenzione anche al mio ultimo libro sulle relazioni amorose (Gli amori briciola, quando le relazioni sono asciutte, Magi editore 2013) che descrive una tipologia molto attuale di relazioni asciutte e scarne. In questo caso i social network vengono usati a fini utilitaristici e non come vetrina personale.

Quanta correlazione c’é tra selfie e narcisismo patologico?
C’è una enorme correlazione tra selfie e società narcisistica così come tra selfie e società sempre più visiva. Il narcisista patologico non necessariamente ama ritrarsi, esattamente come non è elegante e palestrato né curato. Contrariamente alla credenza diffusa il narcisista delusivo o maligno – che è quello più grave e più sofferente – non è vanesio e spesso è trascurato nell’abbigliamento e nello spazio che abita.

Ha avuto in cura dei casi di tecno- dipendenza, da whatsapp, facebook, twitter?
Non sono un’esperta di dipendenze. Credo che per trattare le tecno-dipendenze siano necessari strumenti e conoscenze specifiche che io non ho, credo che l’intervento non sia quello generico della psicoterapia ma un intervento specialistico molto puntuale che deve proporre tecniche temi molto definite. Anni fa quando era di moda “second life” mi è capitato di trattare situazioni di bigamia da network, molto interessanti e dolorose.

Leggendo “Ho sposato un narciso” la sensazione che si ha è quella di avere tutto ad un tratto gli strumenti per poter leggere e capire persone, comportamenti e situazioni fino a qualche pagina prima assolutamente indecifrabili. Crede che questo avvenga anche con la filosofia? Nel senso, se conosci i concetti base della vita, riesci a leggerla e capirla? E magari, anche ad accettarla?
Non credo si tratti di conoscere i concetti di base della vita quanto di avere un metodo epistemologico per intervenire sulle operazioni del vivere e sulla relazione tra griglie di decodifica degli eventi, interpretazione degli stessi e conseguente atteggiamento verso la vita. Non credo neppure che lo scopo del vivere sia solamente quello di accettare la vita. L’accettazione è il primo passo per arrivare poi a parteciparvi in prima persona con una modalità proattiva ed emotiva oltre che razionale.

La citazione filosofica con cui riassumerebbe la sua vita.
“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

La redazione

[Immagini tratte da Google Immagini]

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