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Il mondo ed io con lui

È solo un estivo giovedì sera nel West End e io sono semplicemente seduta sulla poltrona vellutata del Queen’s Theatre in attesa che cominci la magia. Alle sette e mezza in punto le luci calano, l’orchestra comincia con quel potente “mi-laaaa, mi-laa” e sullo schermo, un attimo prima di scomparire per aprire la vista sul palco, appare la scritta “Paris 1815”: è l’inizio di Les Misérables, con ogni probabilità il musical migliore di tutti i tempi, e io scioccamente penso di essere l’unica a sentirmi dentro il cuore che, battendo, fa anche lui “mi-laaaa, mi-laa”. Sì perché in verità questo per me non è solo un giovedì: è anzi una di quelle sere specialissime che si aspettano per mesi. Comunque, ci vogliono quasi due ore per farmi capire che non è affatto così, cioè che non sono affatto la sola ad avere il fiato sospeso e le dita intrecciate in grembo che si stringono quasi dolorosamente. Ne avevo avuto un sentore con la straziante “I dreamed a dream” e dopo la morte del piccolo Gavroche il sospetto era quasi fondato, ma quando il corpo esanime di Enjolras è comparso in bilico sulla barricata disfatta di un moto rivoluzionario caduto nel vuoto (Parigi 1832) ne ho avuto la conferma.

C’era chi tirava su col naso e chi invece era riuscito a recuperare un fazzoletto da chissà dove, soffocando in questo modo dei rumori non proprio dignitosi; in alcuni piccoli momenti, quelli in cui la musica era meno intensa, si potevano anche udire dei “sob” sfuggiti da labbra inconsolabili e potevo  percepire le silenziose lacrime della mia vicina a destra come anche della mia amica a sinistra; sentivo infine scorrere le mie di lacrime, silenziose lungo il viso. Soprattutto quando Marius, unico sopravvissuto tra tutti i suoi amici, un nutrito gruppo di speranzosi rivoltosi, cantava la sua solitudine seduto al tavolo di una taverna divelta. In quella sala c’erano certamente persone che lì dentro ci erano state trascinate, e magari quasi a peso, mentre altre forse erano semplicemente un po’ meno sensibili a quella trama tragica enfatizzata da musica e testi potenti e toccanti; può anche darsi che altri ne fossero persino schifati, chissà; io però lì dentro ho saggiato un momento corale del mondo. Un momento in cui le persone dividono lo stesso pensiero, la stessa emozione: lo spazio che ti circonda ne è pieno tanto quanto tu ne sei pieno.

Solo un mese fa ragionavo sul concetto di unicità della persona. Siamo in effetti continuamente portati a pensare di dover essere differenti, che essere come gli altri sia sbagliato, che fare come gli altri sia un inequivocabile segno di debolezza della personalità, se non di totale mancanza di personalità. Abbiamo deciso di prendere sempre alla lettera quel “vitandum […] turbam” di Seneca¹ senza aspettare di leggere e comprendere la successiva esegesi di quel monito; perché noi siamo sempre di fretta ed abituati a soffermarci sugli slogan, a proposito dei quali non si può non pensare con scherno ad un famoso “Think different” che marchia oggetti che praticamente tutti hanno e tanti vogliono. Per carità, questo è solo uno dei risvolti della massa, è in effetti quello che identifica la massa come sostantivo femminile singolare; ma se ci guardiamo dentro a questa massa, possiamo comunque trovarci una pluralità di nomi singolari, maschili e femminili: un insieme di persone che mantengono una propria individualità nonostante condividano qualcosa in comune. È crudele pensare che persone che si muovono insieme non abbiano personalità. In “One day more”, canzone anch’essa tratta da Les Misérables, la cosa è particolarmente evidente poiché obbedendo alle stesse leggi metriche e musicali tutti i personaggi partecipano alla stessa canzone con la propria personalità e voce, con i loro problemi, speranze e sentimenti, alternandosi ma anche sovrapponendosi gli uni agli altri, fino a convergere nel finale nelle medesime parole². Ognuno di quei personaggi ha una propria e chiara individualità, eppure per ciascuno di loro c’è la medesima speranza del domani, condividono (alcuni di loro senza saperlo) la stessa trepidazione ed aspettativa, trovano gli uni negli altri la comprensione, perché in verità possiamo capire a fondo un’emozione, un momento, un battito, soltanto quando la condividiamo. Capirsi non è brutto; direi anzi che è fondamentale, soprattutto perché ormai ad ascoltare non si ferma quasi più nessuno. Trovo che pensare di essere migliori perché speciali sia segno di grande tracotanza da parte nostra, perché ci sono sempre infiniti momenti della nostra vita in cui siamo parte di un insieme, che lo vogliamo oppure no. E io penso che infondo lo vogliamo. Secoli fa John Donne sostenne che nessun uomo è un’isola³; penso che quello che ci unisca agli altri siano i sentimenti, molto più dei risultati delle leggi del consumo e del mercato: sono quelli che ci tengono uniti al continente. Purtroppo oggi va di moda il cinismo e grazie ad esso noi di questo semplice e puro fatto finiamo col non accorgerci.

Ricordo che l’anno scorso, sotto il cielo di un cimitero nel primo pomeriggio di novembre ho cantato il Padre Nostro, senza conoscerne la melodia, ma stringendo le mani a persone sconosciute mi sono sentita capita: quel mosaico di voci dissonanti mi ha consolata perché ho sentito in quel canto che si disperdeva attorno a me lo stesso sentimento che mi sentivo dentro. In un modo del tutto simile, nemmeno un mese fa ho pianto senza preoccupazioni mentre ascoltavo la reprise finale di “Do you hear the people sing” al Queen’s Theatre, ma ho anche esultato, qualche anno prima, davanti alla tv per ogni medaglia italiana conquistata a Londra 2012, ho urlato canzoni in mezzo alla folla di un concerto e sbuffato mille volte chiusa e compressa dentro un treno dopo l’ennesimo annuncio metallico “Ci scusiamo per il disagio”: perché è consolante anche sapere di dividere con gli altri anche delle situazioni spiacevoli, e incrociare in quel momento due occhi sconosciuti ma altrettanto seccati e rassegnati non è poi così male. Non mi sono sentita senza personalità, mi sono sentita dentro un sentimento condiviso. Unendo tutte queste esperienze, sono portata a pensare che infondo potrei essere originale quanto voglio, ma difficilmente proverò la stessa piacevole sensazione di essere parte di un mondo che gira, corre, si emoziona e comprende questa stessa emozione. Ed io ero con lui.

 Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google.]

 

Note

1. Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII,1: “Mi chiedi che cosa dovresti evitare in modo particolare. Rispondo, la folla”.

2. “Tomorrow we’ll discover what our God in Heaven has in store / One more dawn / One more day / One day more”, da Les Misérables. –> https://www.youtube.com/watch?v=aqo2uHQ6Jz0

3. John Donne, XVII meditation: “Nessun uomo è un’isola / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte della Terra. / Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / Essa suona per te”.

 

 

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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