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Studio sull’interpretazione anassimandrea della morte

Una delle domande più inquietanti che, da sempre, l’uomo si pone è: “Perché si muore?”

Per rispondere a questo quesito, scomoderemo uno dei filosofi più antichi che la storia del pensiero occidentale annoveri come proprio venerando e terribile antenato: Anassimandro (610-546 a.C.). Egli fu il primo pensatore a porre a fondamento dell’esistente non un elemento fisico, ma l’ἄπειρον [apeiron], che noi traduciamo con “Infinito” (α privativo + πεῖραρ “compimento, fine”).

I frammenti dottrinali di Anassimandro, secondo l’edizione dei Die Fragmente der Vorsokratiker di Diehls e Kranz, sono cinque: quello più famoso e filosoficamente più interessante è il primo (1b):

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον…έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι, καί τήν φθοράν είς ταύτα γίνεσθαι κατά τo χρεών • διδόναι γάρ αύτά δίκην καί τίσiν άλλήλοις τής άδικίας κατά τήν τού χρόνου τάξιν.

Di questo frammento sono state date molte traduzioni e, ancor di più, interpretazioni; nella convinzione ermeneutica che la traduzione è già di-per-sé un atto ermeneutico, vorremmo aggiungere anche la nostra umile voce. La traduzione che noi presentiamo è:

Annunziò Anassimandro che principio delle cose-che-sono è l’Infinito … infatti, donde gli essenti han sorgente di vita, colà hanno anche necessariamente la morte loro; essi, infatti, pagano l’uno all’altro il fio e la purificazione dell’ingiustizia secondo la regolarità del tempo.

L’Infinito è causa tanto della vita quanto della morte “necessariamente”: κατά τo χρεών – ma perché i viventi pagano l’un l’altri il fio dell’ingiustizia?  E soprattutto, di quale ingiustizia? Quella di essere state create.

Nella logica anassimandrea, l’ἄπειρον è una totalità immobile – intangibile ma presente – che, per ragioni ignote, periodicamente è funestata da cicli di creazione e distruzione; specificamente, è possibile ipotizzare che ogni singolo ens-creatum, staccandosi dall’Infinito che lo genera, crei una perturbazione-cosmica che può essere risanata (secondo un principio di economia compensativa) solo dalla morte – cioè dal ritorno all’Infinito “causa originante” e “causa finale”.

L’allontanamento dall’Infinito è, parimenti, un fatto involontario e un reato preterintenzionale – per il quale ogni ente deve pagare; e come avviene questo “processo all’ente”? Secondo “la regolarità del tempo”. Una ragione empirica piuttosto chiara: gli esseri anziani, che prima d’altri si son distaccati dall’Infinito, normalmente, sono quelli che prima tornano a esso.

Come gl’entes muoiano, è assolutamente indifferente: quindi “che sia per spada o per lento sfacelo del tempo”, tutti i viventi perverranno alla φθορά, come ridondante monito a chi verrà dopo di loro, e riproposizione eterna di chi li ha preceduti sul lungo viale della notte eterna.

Altresì, è evidente che la nascita non solo è un reato, ma anche un peccato: un peccato originale meglio ancora, che, come conseguenza di una vera e propria sentenza, deve essere compensato da un castigo. Certo, la parola “peccato” è impegnativa, e non si suol attribuirla a concetti pre-cristiani, ma in questo caso ci sentiamo di usarla, e i testi anassimandrei potrebbero tranquillamente confermare la nostra scelta. Il frammento 2b recita:

(Una certa natura dell’infinito) è eterna e non invecchia mai1;

mentre il frammento 3b dice:

Così è il divino: immortale e indistruttibile2.

Ragioniamo: se il divino è immortale e indistruttibile, significa che esso è eterno – e non invecchia mai, ovvero non si corrompe; e tuttavia la natura dell’Infinito è appunto quella di essere eterna e incorruttibile; ne consegue logicamente che la natura dell’Infinito è divina e che quindi, l’atto generante gli enti, essendo un distaccarsi dal divino, viene a rivelarsi come un “peccato” (laddove per peccato intendiamo l’allontanamento dalla divinità). Conseguentemente, nascere è un peccato, e la morte è l’espiazione.

Se la nascita è peccato e la morte è penitenza – perché ricongiunge l’ente al divino – meglio sarebbe forse, per gl’uomini, non nascere proprio? Una domanda sensata.

Ragionandoci, però, non-nascendo non vi potrebbe essere comprensione dell’Infinito, dacchè solo l’Uomo comprende – stanti le sue particolari conformazioni intellettuali – l’Infinito: che ne sarebbe, dunque, di esso se non avesse la possibilità dell’autocompresione? A quel punto risulterebbe essere non più (un) infinito, ma (un) limitato dalla consapevolezza (mancata) di sé.

Un Infinito che non s’autocomprende come tale è un cattivo-infinito, perché limitato dall’ignoranza: di conseguenza, esattamente come la morte è κατά τo χρεών, perché chiude il cerchio del peccato e lo emenda, parimenti κατά τo χρεών è la nascita – senza la quale l’Infinito risulterebbe (mi si perdoni il giuoco di parole) finito. Ergo, il peccato della nascita è un peccato necessario, che richiede, però, un altrettanto necessario atto purificatorio.

In questo senso, una traduzione più libera, ma forse più pregnante del frammento 1b potrebbe essere:

Da dove gli essenti traggono la vita, ebbene lì hanno anche necessariamente la morte: infatti essi pagano l’un l’altro il fio ed espiano il peccato di essere nati, secondo l’ordine del tempo con cui sono venuti al mondo.

Torniamo ora al punto iniziale: perché c’è la morte? La risposta che ricaviamo da Anassimandro è la seguente: la morte c’è perché c’è la vita: simul stabunt vel simul cadent.

Morendo, ritorniamo a essere ciò-che-siamo, parte dell’Infinito, mentre nascendo, ci distacchiamo da esso. V’è dunque una legislazione cosmica che necessariamente, e inscindibilmente, collega l’atto di nascita a quello di morte.

E, d’altronde, ciò ch’abbiamo dimostrato, non è ciò che la sapienza dell’Occidente, da sempre, sa? Si muore semplicemente perchè s’ha da farlo. Nessuna eccezione è prevista. Tutto il nostro affannarci qui e ora, è puro niente:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Quid lucri est homini de universo labore suo, quo laborat sub sole? Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat3.

[…] Al gener nostro il fato/non donò che il morire. Omai disprezza/te, la natura, il brutto/poter che, ascoso, a comun danno impera/e l’infinita vanità del tutto4.

David Casagrande

NOTE:
1. Trad. di G. Reale. In: I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani/RCS libri spa – Il pensiero occidentale, 2006 (20124), p. 197.
2. Trad. di G. Reale, ibidem.
3. Liber Ecclesiastes 1, 2-5.
4. G. Leopardi, Canto XXVII (A se stesso), vv. 12-16.

[Copyright: Fulvio Bonavia photographer, in: Google immagini s.v. “Vanitas”]

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