Quello dei migranti sembra un tema irrisolvibile ed è soprattutto molto divisivo tra chi accoglierebbe indiscriminatamente e chi allo stesso modo respingerebbe. Il tratto in comune tra queste due posizioni sembra quello di non avere però a portata di mente una soluzione al problema – o almeno un tentativo di risoluzione – né nell’uno né nell’altro caso.
Così ne abbiamo parlato con qualcuno che una soluzione invece sembra averla: Antonio Silvio Calò, professore di religione e filosofia al liceo classico di Treviso, molto amato tra gli studenti ma balzato qualche anno fa anche agli onori della cronaca. Ne avevamo già parlato in questa intervista e, agli albori del 2022 e con un libro fresco di stampa (Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile, UTET) lo abbiamo risentito per fare “il punto della situazione”.
Giorgia Favero – Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa (nuovadimensione, 2021) è uno dei suoi ultimi libri e racconta la sua esperienza personale quando la sua famiglia ha aperto le porte a sei ragazzi del Nord Africa. Un modello che ha portato in Europa e che si è tradotto nel progetto EMBRACIN di cui è capofila il Comune di Padova ma coinvolge sei Paesi europei. Qual è la sua proposta per affrontare la delicata questione migratoria?
Antonio Calò – È una proposta che può funzionare solo laddove c’è la volontà politica, perché in termini “tecnici” ha tutte le carte in regola per funzionare. L’accoglienza diffusa è un modo di accogliere le persone riportando il tutto a dei nuclei molto ristretti, da 3 a 6 persone; un’accoglienza più decorosa, sia per chi è accolto ma anche per chi accoglie, rispetto a queste grandi caserme da grandi numeri, i cosiddetti hub, in cui tutti subiscono grande pressione psicologica e sociale. Per me l’accoglienza diffusa – e il mio modello 6+6×6 – è un graduale inserimento, e sia chiaro che accogliere non significa solo dare da dormire e da mangiare – che sono sicuramente importanti – ma significa offrire un luogo dove dare effettivamente la possibilità di un inserimento professionale reale e concreto, affinché la persona si possa realizzare nel nostro contesto. Per questo è un’accoglienza che deve assolutamente contemplare l’accompagnamento. EMBRACIN ha già avuto l’approvazione della Commissione Europea ed è partito l’anno scorso ma il Covid naturalmente lo ha molto rallentato. L’idea di fondo è fare in modo che questa accoglienza diffusa e il conseguente graduale inserimento si possa applicare in sei paesi europei (Cipro, Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Svezia, con osservazione da parte della Germania). Ogni Comune di al massimo 5mila abitanti accoglie un nucleo di sei persone, ogni Comune di 10mila abitanti due nuclei e così via: se lo moltiplichiamo per i 58 milioni di italiani, e poi per i 500 milioni di europei, io vi garantisco che l’accoglienza diffusa limiterebbe moltissimo il tema dei migranti. Se c’è riuscita la famiglia Calò a ospitare sei persona in casa propria, sarebbe grave che non riuscisse a farlo un Comune.
G.F. – Questo libro raccoglie anche due importanti firme: quella di Romano Prodi e quella di David Sassoli, probabilmente uno dei suoi ultimissimi scritti. Chi era per lei l’ex Presidente del Parlamento Europeo?
A. C. – David Sassoli era un amico, un’ispirazione. Di lui apprezzavo particolarmente quella sua volontà di essere in sintonia con i giovani, in ascolto: tutte le questioni legate ai giovani per lui erano primarie. E poi, certo… chi è che ha fatto la proposta che Antonio Calò diventasse Cittadino Europeo 2018? David Sassoli. Chi è che ha messo in piedi una tavola rotonda alla sede dell’Onu a Ginevra sulla questione del rapporto Unione Europea e Unione Africana? David Sassoli. Chi è che veniva ad accoglierci quando venivamo con le classi a Bruxelles o a Strasburgo? David Sassoli. E chi si prendeva con Antonio Calò un panino con la porchetta e una birra in una trattoria a discutere di famiglia, di figli e del futuro dell’Europa? David Sassoli. Piango un grande amico e farò di tutto perché la sua testimonianza, il suo essere veramente cittadino europeo, possa continuare a esserci in modo attivo, ma non celebrando una persona – quando si celebrano le persone le seppelliamo due volte! Il cuore di David deve ancora pulsare tra di noi perché ha tantissime cose da dirci e da realizzare. La prefazione al mio libro è un manifesto sull’Europa, su cosa fare e cosa non fare, sull’importanza che per lui ha sempre avuto il tema dei migranti. Così si legge alla fine del suo scritto: «Questo libro ci fa capire che l’accoglienza è possibile, che si può accettare l’altro in modo rispettoso, che si può lavorare bene insieme ed essere persone capaci di creare delle relazioni senza pregiudizi e senza schemi. Tutto questo è possibile ed è indispensabile».
Giorgia Favero – Libertà è una parola molto amata ma forse addirittura abusata: sembra che l’altro (a maggior ragione se diverso, straniero, di altro genere, altra fede, altro orientamento sessuale, altra opinione) con il suo semplice esistere soffochi la propria libertà. Mi affido alle parole di un grande filosofo, Emmanuel Lévinas, secondo il quale bisogna abbandonare la logica della libertà dell’io per abbracciare la libertà come responsabilità. Responsabilità, per Lévinas, significa prendersi cura della libertà altrui. Secondo lei è un modello che può funzionare?
Antonio Calò – È un’idea del tutto condivisibile: per me l’unica libertà possibile è la libertà nella responsabilità. Io dico sempre ai miei studenti che nel momento in cui sono dentro a quella scuola, nel momento in cui conoscono, la conoscenza vera implica sempre una responsabilità: sapere è già essere responsabili e già muoversi all’interno della responsabilità, perché non puoi dire a te stesso di non sapere, se hai conosciuto non puoi dire a te stesso di non aver conosciuto. Se non pratichi la libertà nella responsabilità tu stai praticamente uccidendo l’individuo, nel senso che quell’individuo non può vivere senza questo atto che è l’atto di coscienza vero, il sapere di sapere, e che non può essere sterile: è fecondo, è un sapere nel noi, non nell’io. Il problema fondamentale è che oggi il mondo è chiuso dentro un Io che è diventato un gigante infinito, mentre il Tu e il Noi sono stati messi da parte e rischiano di essere oggetti semi-sconosciuti. Non solo nei confronti dei migranti, che sono semplicemente dei poveri in terra straniera. Anche nei confronti dei poveri italiani voltiamo la testa, pur essendo in realtà aumentati moltissimo ultimamente: eppure per noi non esistono, non dobbiamo vederli, non dobbiamo sentirli. Quindi vanno benissimo le caserme, vanno benissimo i luoghi dove non si vedono, non si sentono, non si toccano, non ci disturbano la vista.
G. F. – Spesso accade che di fronte fenomeni di grande portata in molti si sentano troppo piccoli per poter fare la differenza: le migrazioni, i cambiamenti globali, le discriminazioni di genere. Per citare Bauman, «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». Ma allora qual è (ammesso che ci sia) il potere del singolo?
A. C. – Io non ho la presunzione di cambiare le cose, io so solo una cosa: che sono cambiato io e questo per me è tantissimo. Io ho sentito urlare la mia coscienza di credente e di civile, e questa mi ha portato insieme a mia moglie ed ai miei figli ad aprire una porta, eppure di certo non posso pretendere che tutti sentino e provino che quello che ho sentito io. Ci sono tantissime cose che si potrebbero fare, partendo dal donare quello che si può – non solo in base ai possedimenti materiali ma anche in base alla propria sensibilità. Si può donare qualcosa di materiale ma anche semplicemente il proprio tempo e/o la propria professionalità. Sicuramente ci si può informare, che è già un primo passo per far andare meglio le cose. Ci sono mille modi per far capire che non ci siamo voltati dall’altra parte, che non siamo figure omertose, che non facciamo finta di non vedere e di non sentire. Sentirsi testimoni di qualcosa è già una presa d’atto importantissima nella coscienza di una persona. Essere cittadini attivi vuol dire essere partecipi di quello che sta succedendo.
Giorgia Favero – Nella rivista numero 16 dedicata all’educazione abbiamo parlato anche di scuola, evidenziando come nei programmi scolastici attuali manchi la componente del “tirare fuori” e si lavori soprattutto nell’ “istruire” i bambini e i ragazzi. Lo scrittore Alessandro D’Avenia nei suoi libri scrive che ogni insegnante nella sua ora di lezione può fare la rivoluzione: lei prova a fare la rivoluzione nella sua ora di lezione?
Antonio Calò – A dire la verità io ho sempre fatto la rivoluzione, e penso che la rivoluzione stia nella passione e nella relazione. La passione, quello in cui credi, che porti avanti con studi e aggiornamenti continui, non è sufficiente se non si è in grado di trasmetterla e di relazionarsi con gli altri – in questo caso con i tuoi studenti. Se non si è capace di fare questo, la scuola è già fallita. La rivoluzione – che è una cosa bellissima – avviene ogni giorno nel momento in cui creiamo questo ponte con gli altri e ogni giorno ne dobbiamo creare uno nuovo: ogni lezione deve permettere a ciascun ragazzo e ciascuna ragazza di sentirsi accolto nella sua ricerca come studente, per crearsi un’identità, alimentare quella voglia di porsi delle domande. Ma la rivoluzione deve essere dentro di noi affinché la coscienza continui a crescere.
Per approfondire, vi lasciamo la lettura del libro Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile (UTET, 2022):
“Calò, professore di storia e di filosofia, attraverso la sua esperienza costruisce un decalogo civile, una nuova educazione pubblica, indissolubilmente legata alle nostre radici cristiane, in cui lo stato di diritto non travalica mai l’empatia, in cui l’indifferenza non è più una opzione”
(dalla quarta di copertina)
Buona lettura e grazie ad Antonio Calò per questa intervista!
[Immagine tratta da Facebook.com]