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Immagini ed etica nella comunicazione: intervista a Giovanni Scarafile

Giovanni Scarafile insegna Etica della Comunicazione nell’Università del Salento. Dirige la collana editoriale Controversies. Ethics and Interdisciplinarity per John Benjamins Publishing Company di Amsterdam. È vicepresidente dell’International Association for the Study of Controversies (www.iasc.me) e componente dello Steering Committee della Fédération Internationale Des Sociétés De Philosophie. Inoltre è direttore di Yod Magazine ed autore del podcast il Ramo del Mandorlo su iTunes. In questa intervista la nostra attenzione si concentra sulla sua ultima pubblicazione, Etica delle Immagini (Morcelliana, 2016), per riflettere sulle ambiguità della comunicazione a partire dall’ambivalenza e potenziale espressivo del linguaggio visivo. Proprio questo suo ultimo libro è stato il testo di riferimento nel mio precedente articolo Le ragioni di un’etica delle immagini, pubblicato nella rivista La chiave di Sophia #6 dedicata alla Comunicazione etica.

 

Professore, noi viviamo in una società dell’immagine e dell’apparenza come mai prima d’ora, quello visivo è il linguaggio che è diventato il più gradito e facilmente assimilabile da parte di noi lettori/consumatori, trasformandosi in discriminante per la virilizzazione e diffusione di un’informazione. Diventa quindi necessario riflettere sul valore etico della comunicazione visiva, eppure sembra che non venga dato abbastanza spazio ad un’analisi di questo tipo. Lei cosa ne pensa?

Nel 2001, il regista Patrice Chéreau realizzò il film Intimacy, basato su due racconti di Hanif Kureishi. La trama, in fondo, era semplice: Jay e Claire si incontrano ogni mercoledì nell’appartamento dell’uomo per fare sesso. Il film vinse l’Orso d’Oro a Berlino, ma fu massicciamente criticato da alcuni ambienti per la presenza esplicita di alcune scene di sesso. A mio avviso, quelle critiche erano ingenerose, perché si concentravano su un particolare, perdendo di vista lo sfondo.
Jay e Claire, infatti, vengono mostrati dal regista mentre sono catturati da una forza che li travolge e che, partendo dai corpi, li eleva ad una conoscenza che li supera e sembra trascenderli. Da sempre, a quella forza la filosofia ha dato un nome: eros. Quando vidi il film rimasi colpito dalla sua capacità espressiva: parlava di erotologia con molta più efficacia di quanto avesse potuto fare un discorso di filosofia. Non sto, ovviamente, mettendo in alternativa le due cose: l’aspetto visivo ed il discorso orale. Si tratta di elementi per certi versi complementari. La questione di fondo, però, rimane: quando mai avremmo potuto fare un discorso sull’eros con la stessa vividezza con cui il film mostrava la vicenda di questi due amanti?
Ecco, Intimacy è l’esemplificazione di una situazione piuttosto comune sotto i nostri occhi: siamo circondati da questioni ad alto tasso filosofico. Si tratta di aprire gli occhi per riconoscerle. Proprio nella rinnovata acutezza dello sguardo, infatti, possiamo trovare l’antidoto perché il nostro parlare di filosofia non sia una banale “verniciatura di formule”, secondo il noto avvertimento di Platone nella Lettera VII.

 

Partendo anche dal suo libro Etica delle immagini (2016), che cosa si intende per mito dell’oggettività fotografica e perché oggi può risultare un paradigma pericoloso?

Recentemente ho visto un filmato in inglese in cui l’ex presidente degli Stati Uniti, Obama, all’improvviso dice delle cose senza senso, pur rimanendo serio. Ho dovuto rivedere quel filmato, per essere sicuro di non aver capito male. In effetti, era proprio Obama, con la sua voce e con il suo volto. Ho scoperto in seguito che quel filmato è il risultato del software Face2Face che, inizialmente ideato in alcuni centri di ricerca, anche grazie all’intelligenza artificiale, consente di attribuire a chiunque espressioni facciali diverse da quelle originali del soggetto rappresentato. Quello che vedi è del tutto realistico ed è praticamente impossibile rendersi conto che si sta guardando un video alterato.
Oggi, esponenzialmente più che nel passato, quel che vediamo non è un indizio di qualcosa che si è verificato effettivamente di fronte alla macchina fotografica o alla macchina da presa. Si tratta di un cambiamento epocale. Agli inizi della sua storia, infatti, la fotografia fu ritenuta una prova schiacciante della capacità della “nuova” tecnologia di vedere meglio dell’occhio umano. Per questo, la fotografia fu considerata un sinonimo di obiettività. Di ciò che era fotografato, ti potevi fidare. Assistiamo oggi ad un cambiamento di paradigma: sì, sappiamo che esiste Photoshop e che le foto si possono modificare, ma la tendenza a credere in ciò che vedo è dura a morire. Dobbiamo imparare ad assumere una nuova postura di fronte al cambiamento in atto.

 

In che misura prendere coscienza dei codici del linguaggio visivo ci permette di difenderci da eventuali manipolazioni? Cosa significa saper leggere un’immagine? Esiste un certo “analfabetismo visivo” diffuso?

Come dicevo prima, stiamo attraversando un periodo di trasformazioni strutturali nell’ambito della comunicazione visiva e della comunicazione in generale. L’adozione di strumenti di interpretazione è senz’altro auspicabile, ma di difficile attuazione. La ragione è semplice: il nuovo contesto è accompagnato dall’immediatezza della fruibilità assoluta. Si tratta dell’illusione che qualsiasi informazione sia alla mia portata, indipendentemente dal suo genere e dalla mia preparazione specifica. È lì, su internet, e dunque è a mia disposizione. Facile, no?
Ora, con questa illusione noi dobbiamo confrontarci, perché la situazione precedente (quella, per capirsi, che attribuiva ancora una importanza alle gerarchie) è destinata a non riproporsi.
L’analfabetismo visivo cui lei si riferisce, a me fa venire in mente che oggi non si è tanto perso di vista il senso, ma il senso del senso. In questo nuovo scenario, occorre ripartire dai sensi. Con questo apparente gioco di parole voglio dire che risulta inaggirabile rifarsi a ciò che le persone sono convinte di vedere. In prima battuta, dunque, bisogna mettersi in ascolto delle loro “visioni”. In seconda battuta, occorre far presente che, per vedere sempre meglio, è bene mettere insieme più punti di vista, invece di fidarsi esclusivamente di ciò che ha visto uno solo. È questo il momento in cui l’assolutismo del proprio piano di visione può sfociare in qualcosa di più aperto al confronto.
Oggi, invece, molti esperti, di fronte ai protagonisti del nuovo scenario, reagiscono paternalisticamente. Con il sopracciglio inarcato, ad indicare un atteggiamento di sufficienza nei confronti dell’esistente, sembrano dire “Adesso ti spiego io come stanno le cose”, magari dando del “cretino” a chi non accetti di conformarsi alle indicazioni impartite (si pensi a quanto accade in materia di informazione vaccinale).
Il punto non è se le indicazioni fornite siano corrette o meno. Non possiamo fare a meno del sapere degli esperti, questo è chiaro. Tuttavia, nel nuovo scenario della immediatezza della fruibilità assoluta, gli altri non possono più essere considerati dei semplici destinatari, ma vanno intesi alla stregua di interlocutori: ai segni del cambiamento occorre rispondere con un cambiamento dei segni.

 

La diffusione delle fake news ha dimostrato che l’informazione libera non sempre porta benefici a chi legge, soprattutto se il lettore non è in grado di fare una lettura critica del messaggio che riceve. Quanto la rivoluzione del digitale ha facilitato l’elaborazione delle informazioni e quanto invece ha favorito relazioni asimmetriche tra chi crea contenuti e chi li percepisce?

Come dicevo prima, la rivoluzione digitale permette a chiunque, indipendentemente dalla sua preparazione specifica, di accedere ad una grande quantità di informazioni. A questo va aggiunto che oggi saltano le mediazioni. Se un tempo avevo bisogno di un’agenzia per organizzare il mio viaggio di nozze, oggi posso fare da solo. Questo porta con sé dei vantaggi, ma anche dei potenziali svantaggi. Cosa ne è della responsabilità degli esperti? Senz’altro non viene meno la loro responsabilità, anche se nessuno sembra più aver voglia di farvi riferimento. Il punto è che tale responsabilità, intesa come fedeltà al sapere da testimoniare, deve trovare modalità nuove per manifestarsi. In particolare, per quanto strano possa sembrare, la credibilità di un esperto non può più essere data per scontata e deve essere riguadagnata sul campo, a partire dal rispetto dovuto a coloro che sono pronti a contestarti. Riusciranno gli esperti a non farsi coinvolgere nelle risse mediatiche e a trovare nuove modalità di comunicazione in linea con i tempi? Mi sembra impossibile se gli esperti, invece di consultare gli studiosi di etica della comunicazione, preferiscono il fai da te. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mentre gli esperti criticano coloro che non si fidano degli esperti, con il fai da te in materia di comunicazione, essi finiscono con l’applicare la stessa logica di coloro che criticano.

 

L’etica viene per lo più associata ad una dimensione di riflessione filosofica e poco tangibile; secondo lei come può invece concretizzarsi? Perché è necessario per tutti ragionare di più su questo argomento?

Ciò di cui lei parla, il fatto che l’etica sia percepita come ‘astratta’, è in effetti difficilmente contestabile. Vede, nel filosofare ci sono due aspetti di cui tener conto. La filosofia deve senz’altro ricercare gli indici di costanza dei fenomeni, cioè le condizioni di possibilità di ciò che appare. Al tempo stesso, non può disinteressarsi alla vita concreta dentro cui quegli indici vanno intravisti. L’impresa filosofica oscilla continuamente tra i due poli dell’eidetica e della fatticità, divenendo più astratta in un caso e più concreta nell’altro. Si tratta di due stazioni provvisorie il cui alternarsi non è purtroppo percepito nel modo appropriato. Proprio per questo, aggiungerei che l’etica dovrebbe orientarsi maggiormente in direzione della evidenziazione dell’efficacia delle sue indicazioni. Come viatico in questo compito, mi viene in mente quel passaggio dei Quaderni in cui Simone Weil osservava che “Niente di ciò che è inefficace ha valore”.

 

Etica, comunicazione e arte: che significato acquisiscono questi tre linguaggi in una società polarizzata tra la forma e il contenuto?

Mi sembra che ciò che etica, comunicazione ed arte hanno in comune è la possibilità di offrire, ciascuno dalla sua prospettiva, una effrazione della monologia del soggetto. L’artista, il comunicatore, il filosofo ci mostrano che esiste un mondo anche prescindendo dal mio punto di vista. Come soggetti, abituati a considerare noi stessi centro di gravità intorno a cui tutto il resto deve ruotare, siamo così indotti ad un esercizio di decentramento.
In proposito, torna in mente quel particolare della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca in cui uno dei fedeli è rappresentato nell’atto di togliersi il copricapo, prima di inginocchiarsi di fronte alla sacra reliquia, la Croce di Cristo, finalmente ritrovata.
Togliersi il copricapo, deporre l’elmo è una metafora straordinaria per indicare la detronizzazione del soggetto, cioè il gesto di chi, giunto a riconoscere l’esistenza di quanto non dipende da lui, è finalmente in grado di relazionarsi più autenticamente ad un altro, finalmente libero di annunciarsi.

 

Una comunicazione più obiettiva e responsabile è un obiettivo al quale poter aspirare? Se si, a che condizioni?

Se per “comunicazione più obiettiva” intendiamo una comunicazione più conforme al vero, allora il primo passaggio dovrebbe consistere nel prendere coscienza dei modelli comunicativi in cui siamo immersi. Non infrequentemente si tende a ritenere che la comunicazione coincida con la trasmissione di un messaggio da un emittente ad un destinatario. Questo modello va smascherato. Esso deriva da una ricerca, finanziata negli anni Sessanta dalla Bell Company, una compagnia telefonica, interessata a comprendere il modo migliore per ottimizzare il flusso di informazioni tra due apparecchi telefonici. Nel corso degli anni e misteriosamente, quello schema di funzionamento, proprio delle macchine, è stato riferito, piuttosto acriticamente, agli umani. La comunicazione umana, invece, è un’altra cosa e va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni.

 

Da cosa è determinata la nostra percezione del vero, come acquisire maggiore consapevolezza del nostro essere fruitori e spettatori? In questo senso, la bellezza si può considerare una distrazione?

In genere, di fronte a qualcosa che ci sembra bello, rimaniamo senza parole, a bocca aperta. Fuor di metafora, la bellezza è ciò che interrompe la corrente continua che ci lega al mondo. In tal senso, si tratta di una distrazione salutare, perché dà avvio al processo che mi consente di interrogarmi sul modo in cui guardo la realtà.
La consapevolezza di cui lei parla è un atteggiamento riflesso, non una condizione immediata. L’accorgermi di significa che sto ragionando sul modo in cui vedo. È l’inizio di quel processo che mi rende spettatore avvertito o “emancipato”, come scrive Rancière, una specie di salto indietro, per recuperare ciò che è alla base della stessa distinzione tra vedere ed agire.
Le immagini hanno, in tal senso, una funzione straordinaria. Si pensi alle parole rivolte da Kafka nel dicembre 1912 alla fidanzata Felice, a proposito di una foto della donna: “Quando guardo il ritrattino, è qui davanti a me, gli si accompagna lo stupore di vedere con quanta intensità noi due ci apparteniamo, e come al di là di tutto ciò che si vede, al di là del caro volto, degli occhi tranquilli, del sorriso, delle spalle (a dire il vero strette) che bisognerebbe abbracciare subito, come al di là di tutto ciò agiscono forze affini, indispensabili per me e come tutto è un mistero che da piccolo uomo non dovrei neanche guardare; dovrei invece soltanto affondarvi devotamente”.
Queste parole mi emozionano sempre. Sono una grande dimostrazione non solo dell’affetto che può unire due persone, ma anche della forza misteriosa che si sprigiona dalla rappresentazione visiva e dei dinamismi che essa pone in essere. È ciò che oggi chiamiamo spectatorship.
Come filosofi della comunicazione, il nostro compito è di dare un nome, cioè comprendere sempre meglio, queste forze che Kafka definisce “un mistero”.

 

Tra i suoi scritti vogliamo ricordare anche Interdisciplinarità ed etica della comunicazione (2014), testo nel quale ha fatto emergere un tema a noi molto caro, ovvero la propensione di alcuni saperi (o meglio, dei loro esponenti) al ragionamento per compartimenti stagni e la loro difficoltà di dialogare con altri. In che modo l’interdisciplinarità dei saperi può, secondo lei, aiutare a vivere nella società e nel mondo presenti?

Farei due considerazioni. La prima è che, oggi, l’interdisciplinarità non è più una opzione facoltativa. È, piuttosto, una necessità, perché i problemi di fronte a noi sono talmente ingarbugliati da richiedere risposte non convenzionali.
La seconda constatazione è che la struttura del mondo accademico è basata, non immotivatamente, sulla divisione disciplinare. Pensi alle architetture dei nostri dipartimenti nei cui corridoi si alternano i singoli studi dei docenti, come fossero entità a se stanti. Di cosa è immagine quel modo di concepire la ricerca?
Per questo, chi si occupa di interdisciplinarità è, in genere, considerato una specie di dilettante, con interessi variegati, ma mai ritenuto “profondo” in nessuno degli ambiti di cui si occupa.
Sa qual è la prima conseguenza di questa concezione? Che coloro che si occupano di queste tematiche possono avere conseguenze negative sulle loro carriere. È quanto viene osservato nel recente The Oxford Handbook of Interdisciplinarity in cui è scritto: “those who become involved in interdisciplinary work are often professionally marginalized”.
Siamo al paradosso: c’è bisogno di interdisciplinarità, ma se te ne occupi la tua carriera si arresta!
Sono convinto che con il tempo la situazione è destinata a cambiare. Perché l’interdisciplinarità possa funzionare meglio è richiesta una sempre maggiore capacità di ascolto dell’altro. È dalla fiducia e dalla reale accoglienza che è possibile il transito dei significati da un sapere ad un altro. Ecco perché l’interdisciplinarità non è sganciata da una comunicazione etica.

 

L’impressione che si ha dell’oggi è che si parla tanto ma si approfondisce poco. C’è ancora spazio per parlare di filosofia nella nostra quotidianità?

In tutta franchezza, a me sembra di rilevare una inevasa domanda di senso, una vera e propria sete di ciò che è essenziale e che, come tale, può restituire il gusto vero delle cose. Insieme a questo bisogno forte dobbiamo cogliere che oggi le forme dell’esperienza del senso sono in continua trasformazione. Guardare avanti o indietro?, ecco la scelta che ognuno di noi deve compiere. Nel primo caso, saremo nostalgici, pronti a rubricare come superficiali od inesistenti le richieste dei più giovani. Nel secondo caso, dovremo allinearci alle mutazioni in atto, avendo il coraggio di superare la semplice riproposizione di tradizioni vetuste ed acquisendo nuove modalità espressive.
La consapevolezza che deve accompagnarci è che alla fame e sete di senso si risponde riattualizzando le matrici della nostra cultura che, in larga parte, derivano dall’incontro tra la tradizione greca e quella ebraica. Atene e Gerusalemme, dunque.
Dalla lamentata astrazione della filosofia, dal suo presunto essere disincarnata ed indifferente rispetto ai problemi degli uomini, si esce senz’altro.
Ma, a maggior ragione, si esce se saremo disposti a impegnarci in prima persona, sforzandoci di vedere meglio, di ragionare meglio, di incardinare nella nostra vita i riscontri ottenuti al livello del pensare. In questo modo, nella congiunzione di vita e filosofia, la vita diviene vita desta. Inutile illudersi: è difficile ed è impegnativo (dormire è molto più facile…).
Ma davvero possiamo pensare di vivere senza cercare il sapore delle cose?

 

 

Claudia Carbonari

 

[Photo Credits: MariAnnina Mazzillo]

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