Il contributo offerto dal pensiero di Hannah Arendt rappresenta un punto imprescindibile per la comprensione di molteplici dinamiche contemporanee, soprattutto per quanto concerne la riflessione sull’appartenenza a una comunità in termini giuridici e le implicazioni dell’assenza di tutele all’interno di contesti fragili.
Nelle sue opere più rilevanti, quali Le origini del totalitarismo e La banalità del male, si può ritrovare un’analisi attenta non solo in merito alle caratteristiche strutturali dei regimi totalitari, ma anche per quanto concerne le implicazioni profonde che essi hanno avuto sull’identità soggettiva, sulla condizione umana e, più nello specifico, sui diritti degli uomini.
Il IX° capitolo de Le origini del totalitarismo, intitolato Il tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani, propone una riflessione in merito al concetto di diritti umani ponendo l’accento sulla condizione vissuta dalle displaced persons, o apolidi, nel periodo compreso tra le due guerre: la crisi del modello dello Stato Nazione ha implicato, per questi individui, non solo la perdita della propria patria, ma anche il venire meno di una protezione da parte del governo con la diretta conseguenza di un’esclusione sociale che si traduce nell’estinzione giuridica (cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, pp. 289-290).
Arendt, a tal proposito, afferma: «Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra» (Ibidem). In tal senso, i diritti umani hanno un legame fondativo e radicale con la cittadinanza, poiché il soggetto è titolare dei propri diritti in quanto membro effettivo di uno Stato. Qui, però, vi è una contraddizione di fondo perché la concreta applicazione di tali diritti non vale universalmente, ma è strettamente vincolata al godimento dei diritti di cittadinanza.
Nella società contemporanea il pensiero di Arendt risulta quanto mai applicabile alla situazione relativa ai richiedenti asilo, ai profughi e ai migranti che costituiscono una nuova categoria, quella dei superflui (cfr. ivi, pp. 289-300). Privi di riconoscimento politico, sono soggetti sospesi tra compassione e respingimento, tra umanità astratta, abbandono istituzionale e nuda vita (cfr. G. Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino 2005, p. 173). Le teorie di Arendt possono essere utilizzate come lente interpretativa di una realtà che continuamente propone la sottrazione dei diritti umani come punto di forza di una politica estrema.
In particolare, gli individui che fuggono da contesti segnati da guerre, disastri ambientali e povertà verso luoghi più sicuri spesso si ritrovano in una sorta di limbo esistenziale che si traduce nella concreta deprivazione di uno status giuridico capace di definirli. È il caso, ad esempio, dei richiedenti asilo che attendono per mesi, o anni, una risposta, dei rifugiati detenuti nei centri di permanenza per il rimpatrio, o di coloro che vengono respinti alle frontiere europee senza possibilità di fare ricorso, come accade regolarmente lungo la rotta balcanica o nel Mediterraneo.
In Italia, l’hotspot di accoglienza di Lampedusa, una delle principali porte d’ingresso in Europa, è spesso sovraffollato e, nel contempo, nei CPR – strutture di detenzione amministrativa destinate all’identificazione e al rimpatrio di cittadini provenienti da Paesi terzi e privi di un regolare permesso di soggiorno – si evidenziano profonde criticità spesso legate alla mancanza di trasparenza istituzionale1. In tale contesto, inoltre, si inserisce anche l’accordo siglato nel 2023 tra Italia e Albania che prevede la costruzione di due centri per migranti destinati a tutti coloro che vengono soccorsi nel Mediterraneo da autorità italiane. Queste strutture sono state collocate in territorio albanese, dunque fuori dalla circoscrizione dell’Unione Europea, sollevando profondi interrogativi in merito al rispetto tanto dell’essere umano, quanto del suo diritto di asilo. I migranti, dunque, vengono espulsi da ogni spazio di salvaguardia dei diritti per essere confinati in luoghi asettici e sospesi, fagocitati nella morsa di un’esternalizzazione delle responsabilità che ben si coniuga con la sottrazione alla visibilità pubblica. Questo è ciò che Hannah Arendt descriveva come la perdita del «diritto di avere diritti»: espulsi da ogni luogo riconoscibile i soggetti finiscono reclusi in spazi che richiamano la genealogia dei campi di concentramento (cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 309).
Tuttavia, accanto ad un quadro istituzionale controverso esiste anche un fronte attivo di solidarietà che si svincola dai tempi governativi. Infatti, numerose associazioni, ONG e realtà del terzo settore lavorano ogni giorno per offrire sostegno materiale, assistenza medica e legale, e, soprattutto, per restituire una dimensione umana2. Questo impegno continuo rappresenta una risposta concreta al rischio della disumanizzazione, con l’intento di riaffermare l’idea che i diritti non devono derivare esclusivamente dalla cittadinanza in quanto tale, ma dalla comune e universale appartenenza al genere umano.
NOTE
1. Cfr. il Dossier statistico immigrazione 2024 del Centro Studi e Ricerche IDOS.
2. Cfr. The State of the World’s Human Rights: April 2024 – Amnesty International .
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