Home » Rivista digitale » Filosofia pratica » Relazioni » Forme di giustizia in Platone e Aristotele
giustizia

Forme di giustizia in Platone e Aristotele

Il concetto di giustizia (in greco dikaiosýnê), tanto caro ai pensatori antichi, trova una delle sue più sistematiche formulazioni nell’Etica Nicomachea di Aristotele, quale argomento centrale di tutto il V libro. Lo stagirita è senz’altro debitore nei confronti del maestro, il quale già aveva dedicato un intero dialogo, la Repubblica, al progetto di definire la giustizia attraverso un complesso discorso di carattere psicologico e politico, ricerca che aveva dichiarati intenti educativi. Entrambi, infatti, sono inclini a considerare giusto l’uomo buono e virtuoso, e a non trascurare mai il ruolo inseparabilmente pedagogico della filosofia pratica, che non è mera dottrina ma saggezza frutto dell’esperienza, forma di conoscenza volta all’insegnamento e all’azione, e soprattutto strumento di formazione sociale dei giovani cittadini e dei futuri governanti. Tuttavia, pur trovandosi d’accordo su questo punto, vi sono alcune importanti divergenze teoriche tra i due modi di intendere la giustizia. Per Platone, allievo di Socrate e a sua volta da lui condizionato, la giustizia è la virtù dell’anima in quanto tale e consiste nel «fare le proprie cose senza moltiplicare le proprie attività» (Platone, Repubblica, 433a 8-9). Più specificamente essa è una disposizione che permette sia a ciascuna delle facoltà dell’anima del singolo uomo sia a ciascuna delle parti sociali della città – intesa come pluralità eterogenea di individui – di esercitare rettamente la propria funzione, cioè in modo congruo alle proprie capacità e ai propri fini.

In Aristotele la questione si complica. È vero che la nozione di érgon (l’essenza, la natura e perciò la funzione propria di una determinata cosa) permane anche nella sua riflessione etica, anzi in un certo senso assume un significato più cospicuo nell’ambito del suo sistema filosofico teleologico, però essa non riguarda direttamente la giustizia. Anzitutto va tenuto a mento che Aristotele non attribuisce mai un solo significato ai termini che utilizza, e che perciò anche la giustizia, al pari dei concetti di “essere” e di “bene”, si dice in molti modi. C’è però – egli sottolinea – un senso generale in cui può essere concepita: «Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto è chi rispetta la legge e l’uguaglianza» (Aristotele, Etica Nicomachea, 1129b 31-34). Ora, si sa che le leggi prescrivono di fare ciò che procura la massima utilità alla città, così come di evitare in ogni modo di arrecarle danno o offesa. Dunque questa è la prima caratteristica del giusto: produrre e preservare il bene e la felicità della comunità politica. Ma la legge è anche ciò che rende un uomo giusto in rapporto all’esercizio delle sue altre virtù: questa forma di giustizia, ad esempio, fa sì che il temperante e il coraggioso siano tali, ossia impone o proibisce loro una determinata condotta, che sarà buona se la legge è stata stabilita in modo retto e cattiva se essa è malvagia o iniqua. Si deve pertanto notare che, se da una parte il giusto è colui che porta al massimo grado di bontà e virtù le proprie azioni, comportandosi come la sua legge gli comanda di fare, d’altra parte questo genere di giustizia sarà perfetta, ma non in sé e per sé, bensì solo relativamente ad altro. Essa, infatti, «fa ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è membro della comunità» (ivi, 1130a 4-5). In un primo senso, allora, essa è migliore delle altre virtù perché non giova solo e primariamente a se stessi, bensì agli altri cittadini, e perciò è la virtù sociale per eccellenza. In secondo luogo, è migliore delle altre virtù perché è la condizione di possibilità stessa di quest’ultime, siccome, per esempio, si può essere giusti anche senza essere magnanimi, ma non si può affatto essere magnanimi senza essere giusti.

Traendo le necessarie conseguenze del ragionamento, si può dire che la giustizia, adottando un lessico non aristotelico, è la più alta forma di eticità, seconda soltanto all’amicizia, in quanto dispone l’uomo, elemento di una totalità complessa e articolata, all’attività più nobile ed eccellente: il perseguimento del bene comune. I rispettivi insegnamenti dei due filosofi, dunque, ci pongono di fronte all’esigenza di interrogarci sull’essenza del nostro ruolo di cittadini, cioè di partecipanti attivi di una comunità di persone, di una vita associata che abbiamo il dovere di tutelare e di migliorare. In sintesi, la giustizia è la virtù somma in quanto, rendendo virtuosi i singoli individui, rende buono il tutto in vista del quale essi vivono.

 

NOTE
Photocredit Tingey Injury Law Firm via Unsplash

Tommaso Quaglia

Tommaso Quaglia

critico, oscuro come Eraclito, mens sana in corpore sano

Mi chiamo Tommaso Quaglia, ho ventidue anni e sono un filosofo. Mi sono diplomato in studi classici presso il Liceo Statale Enrico Medi (Villafranca di Verona) e ho successivamente conseguito una laurea triennale in filosofia a Verona con una tesi sul pensiero di Nietzsche. Cultore ed amante delle humanae litterae, venero il pensiero degli antichi, […]

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!