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“Sto pensando di finirla qui”: il rimpianto nel ritratto grigio di Kaufman

È con un’idea semplice, ma dalla duplice valenza che si apre Sto pensando di finirla qui (2020), l’ultimo film del visionario Charlie Kaufman. Il regista e sceneggiatore statunitense che grazie a pellicole come Anomalisa, Synecdoche, New York, Se mi lasci ti cancello ci aveva regalato profondi reticoli onirici non sempre di facile lettura, ha firmato per Netflix un film tratto dall’omonimo romanzo di Ian Reid.

Sto pensando di finirla qui”: queste sono le parole che la protagonista Lucy si ripete nella testa fin dalle prime scene. Una frase che rivela tutti i dubbi che la ragazza nutre nei confronti della relazione sentimentale con il compagno Jake. Nonostante la storia tra i due sia iniziata da poche settimane, la giovane sembra non essere convinta di voler proseguire. I due vengono ritratti in macchina, durante il viaggio verso casa dei genitori di Jake. Dalla fisica alla poesia, la coppia sembra avere diversi interessi in comune, ma nonostante questo dai dialoghi si intravede una certa distanza emotiva. Lo spettatore riesce a percepire i pensieri nella testa di Lucy e lo stesso Jake in alcuni momenti sembra riuscire a sentirli, risultandone quasi infastidito.

Ben presto un anziano bidello dalla camicia a quadri e dallo sguardo malinconico entra nella pellicola. Scena dopo scena, riusciamo a ricostruirne i tratti fondamentali: deriso dalle ragazze del liceo in cui lavora, il vecchio conduce una vita semplice ed apparentemente non sembra essere connesso con la vicenda principale dei due innamorati.

La campagna deserta e innevata si intravede dal finestrino dell’auto, mentre Jake e Lucy proseguono il viaggio verso casa del ragazzo. Ben presto però i personaggi si intersecano e ognuno sembra perdere la propria identità per rivelarsi in quella dell’altro. Come in Synecdoche, New York (2008), per Kaufman i personaggi diventano un pretestoLucy, Jake, l’anziano bidello, i genitori di Jake: non è questo ciò che conta. L’identità non è che un artefatto per narrare una condizione universale, quella dell’essere umano. E se in Synedcoche, New York era la vita di Caden Cotard, regista teatrale solo e ansioso a far luce sul senso della vita e su tutti quegli aspetti che ne caratterizzano l’esistere, qui è l’amore romantico per una donna ideale ad essere funzionale alla narrazione del rimpianto.

Ciò che è rimasto indefinito, irrealizzato nello spettro dell’esistenza si impersonifica e diventa incubo, inconscio, visione. I personaggi si perdono per ritrovarsi in un’idea più grande di loro e tutto sembra rivelare ben presto il suo carattere effimero: “la vita non è sempre bella in una fattoria”, dice Jake dopo aver raccontato un triste aneddoto alla ragazza.

Mentre l’animale vive solo nel presente, è l’essere umano, in equilibrio precario tra il passato e il futuro, ad essere gettato nell’inevitabilità della morte, un confine e una consapevolezza che non può cancellare dal suo orizzonte. Kaufman tratteggia un dramma esistenziale di straordinaria potenza, così come il cinema riesce a ricostruire: un ritratto che attraversa la vecchiaia, la solitudine e il rimpianto per ciò che non è stato, ma che rimane possibile e agognato fino alla fine dei giorni.

“Alle persone piace pensare di essere come puntini che si muovono nel tempo, ma io credo che possibilmente sia il contrario. Noi siamo fermi e il tempo passa attraverso di noi, soffiando nel vento freddo, rubandoci colore, lasciandoci congelati e screpolati, morti” dice Lucy in uno dei suoi monologhi. Tra le rughe dei volti, nella camminata stanca dell’anziano bidello: è qui che si cela lo scorrere degli anni e l’inevitabilità delle scelte sbagliate.

Qui siamo lontani dell’amor fati nietzschiano. Avrei sempre voluto domandare a Nietzsche qual è il segreto del superuomo, la ricetta per accettare e amare ciò che accade per l’eternità. Più ci si prova più le visioni grigie di Kaufman sembrano descrivere al meglio quel che veramente siamo e possiamo essere: umani, nient’altro che questo. Così, una scelta precisa che facciamo nella vita fa cadere il sipario su tutto ciò che poteva essere e non è stato. Così, la società appare distante dal singolo e decadente, il riconoscimento dato dallo sguardo altrui si rivela essenziale per vivere, anzi, per non diventare invisibili. La speranza qui è una chimera, una costruzione prettamente umana creata per celare tutt’altra verità.

Solo alla fine del film, forse, apparirà chiara l’altra possibile lettura di quell’idea così semplice che fa capolino nella testa di Lucy/Jake fin dall’inizio del film: la possibilità di “finirla qui”. Ancora una volta una creazione di Charlie Kaufman capace di lacerare per la struggente lucidità e l’intensità dei ritratti psicologici narrati. Un altro magnifico esempio di come la potenza del cinema possa manifestare così chiaramente l’interiorità umana, abitata anche dal grigiore dei rimorsi, rimpianti e desideri rimasti inespressi nel tempo.

 

Greta Esposito

 

[In copertina: fermo immagine dal film]

 

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Greta Esposito

Greta Esposito

Introversa, empatica, ostinata

Laureata in filosofia teoretica con una tesi sulla differenza tra comprendere e spiegare nella filosofia di Karl Jaspers e Wilhelm Dilthey, all’ambito accademico ho preferito quello della comunicazione e degli eventi. Vivo a Bologna, dove tra un viaggio e l’altro lavoro come copywriter e ufficio stampa freelance. Appassionata di musica indie rock fin da quando […]

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