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Può esistere un buon governo? Sviluppi dall’assolutismo Hobbesiano

In passato la storia è stata segnata da vere e proprie rivolte e rivoluzioni, parole che ad oggi ci sembrano cariche di significati e implicazioni ingestibili e indesiderabili. Ci definiscono e ci riteniamo noi stessi “società civile”, e dunque miriamo a risolvere problematiche e ingiustizie attraverso l’esercizio del dialogo e ponendo una buona dose di fiducia nei meccanismi del processo democratico.

In altri tempi ciò non era affatto possibile: il sovrano era assoluto, il popolo non aveva alcuna facoltà d’azione o di pensiero, esisteva l’obbligo dell’obbedienza categorica. In un tale clima prendersi l’onere di organizzare una sommossa popolare non era affatto cosa da poco, eppure talvolta questa eventualità si realizzava.

Sarebbe bello, però, se non fosse necessario nessun tipo di intervento; sarebbe bello se non ci fosse bisogno di elaborare nessun tipo di rimedio. Sarebbe bello se tutto funzionasse a regola d’arte, in politica, in società, nei rapporti umani. Sarebbe bello se non vi fossero conflitti, contrasti, logiche di interesse!

Ma la vita, così come noi tutti la conosciamo, non è affatto priva di queste spiacevoli componenti, anzi! A mio parere, nessuno ha mai descritto questo quadro come ha saputo fare Thomas Hobbes nelle pagine del Leviatano o del De Cive nel lontano 1600. Il paragone non sarà dei migliori, ma per me Hobbes è come un antipasto di pesce crudo. O piace o non piace. Ma se piace, piace tanto!

Hobbes, infatti, è egli stesso crudo: la sua concezione dell’uomo, della società e della politica è sorprendentemente disincantata. Le sue parole si fanno graffianti e taglienti grazie alla loro pura semplicità, grazie al loro essere profondamente “terra-terra”. Per Hobbes la condizione normale dell’umanità è la guerra: gli uomini, nello stato di natura, essendo uguali tra loro, percepiscono questa uguaglianza come il presupposto della conflittualità. L’aspirazione di ciascuno diventa dunque la sopraffazione dell’altro, obiettivo però irraggiungibile, a causa della sopraddetta uguaglianza innata. L’istituzione della società civile non deriva, come per gli Antichi, dalla naturale socievolezza degli uomini, ma è frutto di uno strategico calcolo di interessi. Gli individui infatti si consociano per porre fine ai conflitti e per proteggere la loro esistenza, la quale è garantita esclusivamente dall’obbedienza a tutto ciò che il sovrano emana.

E’ qui che Hobbes si fa “idealista” (nel senso non filosofico del termine). All’interno di un ordinamento analogo a quello da lui descritto non vi può mai essere alcuna legge ingiusta: «Le regole del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e del disonesto sono le leggi civili; e dunque bisogna stimare come buono quello che il legislatore ha comandato, e come cattivo quello che ha proibito»[1]. L’idea di giustizia che Hobbes ha in mente è una giustizia formale, secondo la quale la rettitudine della legge non corrisponde al suo contenuto, ma piuttosto equivale alla sua forma, ovvero al fatto che tale legge è emanata dal sovrano vigente. Soltanto a quest’ultimo, e mai agli individui, appartiene allora la conoscenza del bene e del male.

Sarebbe bello se questo sovrano conoscesse veramente ciò che è giusto per la sua comunità, sarebbe bello se egli operasse esclusivamente per il bene di quest’ultima. Sarebbe bello se non ci fosse bisogno di porre nessun tipo di rimedio alle sue decisioni. Sarebbe bello se tutto funzionasse a regola d’arte, in politica, in società, nei rapporti umani. Sarebbe bello se non vi fossero conflitti, contrasti, logiche di interesse! Sarebbe bello poter obbedire e sottostare, da uomini liberi, alle direttive di un reggente che non sia soltanto in grado di presentarsi come onesto, giusto e trasparente, ma che possieda realmente, nel suo essere, queste caratteristiche! Sarebbe bello essere ben governati! Forse aveva ragione Hobbes: potremmo essere più liberi e più sicuri di quanto non siamo adesso.

Federica Bonisiol

NOTE

[1] T. Hobbes, De Cive, traduzione di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1992

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