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Ecco perché a Rio non ha vinto nessuno ma abbiamo perso tutti

28 Agosto 2016. È passata una settimana dalla chiusura della cerimonia olimpica ed ogni Paese sta tirando le somme della propria spedizione sportiva o – forse – cominciando già a pensare inconsciamente a Tokyo 2020.
L’Italia non è andata male. Nono posto nel medagliere con 28 medaglie totali, abbiamo replicato quanto fatto a Londra 2012.
Abbiamo avuto i nostri momenti di gioia e di disperazione. Una volta ogni quattro anni scopriamo l’esistenza di tanti sport oltre al calcio e – diciamolo dai – sono anche capaci di farci emozionare.
Emozioni che ogni persona del modo avrebbe avuto il diritto di provare,  specialmente i brasiliani che ospitavano i Giochi.

La realtà delle cose – purtroppo – nel Paese sud-americano è stata totalmente diversa.
Quando nel 2009 il Brasile ottenne l’organizzazione dei Giochi Olimpici, era governato da Lula ed era considerato una nazione in grande progresso economico.
Per il sindaco di Rio nel 2012, Eduardo Paes, le Olimpiadi avrebbero permesso di «mettere in relazione ricchi e poveri, di portare i servizi di base – istruzione e sanità – nelle favelas e di favorire la coesione sociale attraverso investimenti localizzati in vari ambiti della città, consentendo, quindi, di realizzare la “città del futuro”».
In realtà dove sono finiti gli investimenti? Una buona sezione del denaro è stata utilizzata per prolungare la linea della metro verso la spiaggia di Ipanema e per il ricco sobborgo di Barra Tijuca. Gran parte del “villaggio degli atleti” si tramuterà in residenze di lusso. Inoltre – per concludere dal punto di vista umano – sotto il governo di Paes più di 20.000 famiglie sono state sfrattate dalle loro case.
Insomma, le Olimpiadi non hanno fatto altro che aumentare il divario sociale e – stranamente – sono state fonte di guadagno per i più ricchi.

Ma a tutto questo – ormai – siamo abituati da ogni grande Evento e la nostra indignazione per questo genere di cose si spegne facilmente in poco tempo.

C’è – però e purtroppo – molto di più.
Già nel 2015, l’Onu aveva denunciato un “elevato numero di esecuzioni sommarie di bambini” ad opera delle forze dell’ordine, sottolineando come spesso i responsabili risultassero impuniti. In particolare – come si può leggere sulla Repubblica del 9 ottobre 2015 – il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia metteva in luce una “violenza generalizzata” da parte della polizia, specialmente contro i meninos de rua e quelli che vivono nelle favelas. La violenza nei confronti dei minorenni sarebbe particolarmente elevata a Rio de Janeiro, dove «esiste un’ondata di “pulizia” che mira a presentare al mondo una città senza questi problemi» ha dichiarato la vice-presidente del Comitato, Renate Winter.

Sempre prima dell’inizio dei Giochi, Atila Roque – direttore di Amnesty in Brasile – dichiarò che «quando nel 2009 Rio si aggiudicò le olimpiadi del 2016, le autorità promisero di migliorare la sicurezza per tutti. Invece, da allora, abbiamo visto che nella città 2.500 persone sono state uccise per mano della polizia e ben poca giustizia». (tratto da Repubblica del 26 luglio 2016)
Sullo stesso articolo si può leggere che «il Brasile è il paese con il maggior numero di omicidi al mondo, un paese dal grilletto facile in cui solo nel 2014, l’anno della Coppa del Mondo, hanno perso la vita 60.000 persone. Solo nello Stato di Rio de Janeiro morirono 580 persone per mano della polizia, il 40% in più del 2013. Nel 2015 il numero è cresciuto a 645. In queste cifre, apparentemente asettiche, rientrano le decine di bambini assassinati da chi li avrebbe dovuti proteggere. Fra loro c’è Eduardo di 10 anni, seduto sull’uscio di casa, intento a giocare con il cellulare. Una pattuglia sorveglia il quartiere, quando un agente gli punta la pistola alla testa e spara. Eduardo, come molti suoi coetanei, è fra le vittime innocenti degli squadroni della morte (UPP, Unidades de Policia Pacificadora). […] Un dato, non trascurabile, riguarda il fattore razziale: i bersagli preferiti dalla polizia sono i giovani, poveri e di colore».

Ora – mi chiedo – tutto ciò era a conoscenza di tutti prima che i Giochi iniziassero, perché nessuno ha dato qualche segnale o fatto qualcosa?
Se fossi stato un atleta mi sarei categoricamente rifiutato di partecipare, cercando ci coinvolgere e rendere partecipi tutti gli altri atleti di questa carneficina in corso e chiedendo giustizia.
Chiudere gli occhi è più semplice? Certo, ma esempi virtuosi ne abbiamo avuti – come il discobolo polacco Piotr Malachowski, che ha donato la sua medaglia in beneficenza per contribuire a salvare un bambino di tre anni affetto da un raro tumore. Mi rifiuto di credere che ogni atleta, ogni giurato, ogni partecipante dei Comitati e delle Spedizioni abbia chiuso gli occhi.
Certo, magari non a tutti è arrivata notizia di ciò che era in atto, come magari anche a me può non essere pervenuta la presa di distanza generalizzata da parte dei partecipanti. Ma il dubbio è grande: bastava una minuscola ricerca per essere informati e una reazione forte da parte di ogni delegazione avrebbe avuto – penso – grande risalto mediatico.

Ecco perché a Rio, per ogni giornata dei Giochi, decine di vite umane si sono spente.
Ecco perché a Rio lo Sport ha fallito.
Ecco perché a Rio ogni medaglia è stata una sconfitta. Per tutti.

 

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

Massimiliano Mattiuzzo

ambizioso, testardo, orgoglioso

Mi sono laureato alla magistrale di Scienze filosofiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia e progetto di proseguire la ricerca all’interno del panorama accademico. Sono vice-caporedattore de La Chiave di Sophia e vice-presidente della relativa associazione culturale. Fin da bambino do una mano nell’azienda biologica di famiglia, vivendo appieno il contatto con la natura. Amo la […]

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