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La politica incontra il male per il bene: Machiavelli e il Divo di Sorrentino

“Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale sanitario alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo; sono morti loro.

Inizia così Il Divo, film del regista Paolo Sorrentino su la vita di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti non era solo un politico, il Divo così soprannominato, fu l’immortale uomo di Stato, tra i maggiori esponenti della Democrazia Cristiana nel lasso 1948-1993 e pilastro indiscusso della Prima Repubblica, conclusasi in merito allo scandalo Tangentopoli.
Un uomo che ci viene raccontato magistralmente dal regista napoletano Paolo Sorrentino, in quello che lui stesso definisce il proprio capolavoro cinematografico, facendosi beffe del premio Oscar La grande bellezza.
Una pellicola dirompente tra realtà e menzogna perché tutto si è scritto sul Gobbo, ma nulla si è veramente compreso. Tutto nascosto dalla sua criptica mimetica, dall’impassibilità nel volto e dell’impenetrabilità della prassi politica. Non è bastata neppure la nota pop voluta nel film, per rendercelo familiare e neanche la maschera di Toni Servillo come interprete. Ma nei dialoghi e nelle citazioni desideranti di immedesimare l’ironia cronica del Senatore, è possibile delineare le dinamiche che lo hanno reso tale nella storia e la formazione politica che lo ha introdotto nelle istituzioni repubblicane.

Il film è ambientato tra il 1991 e il 1993, quando Giulio ancora occupava la vita politica nel Paese. Diventato per la settima volta presidente del Consiglio è in corsa per la successione a Cossiga al Quirinale. Gli ultimi ruggiti pacati del democristiano prima degli scandali giudiziari che lo videro imputato per presunte collisioni con la mafia.
Scene arricchite dai palazzi di potere, dalle correnti di partito, dalle cene e dai festini nelle più celebri palazzine di Roma. Tutto contrapposto alla perenne solitudine nella quale riversava e alle frequenti emicranie che gli impedivano lunghi periodi di lavoro.
Due soli anni per poter delineare, quello che oggi viene definito il politico di professione.
Tralasciando le sue peculiarità fisiche e intellettuali, è doveroso indagarne la formazione politica in termini di opere nelle quali è possibile collocarlo.
Uno di questi è Il Principe1 scritto da Machiavelli nel 1513 trattato di dottrina politica. Fu dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico e duca di Urbino, allo scopo di educare il giovane esuberante e ambizioso alla vita politica, che richiedeva non solo abilità intellettuali ma astuzia, scaltrezza, virtù e resistenza. Tutto per il bene della Repubblica seppur i mezzi da utilizzare possano essere definiti poco benevoli e dall’esito incerto.
Andreotti quest’opera la conosceva bene come la maggior parte della classe dirigente non solo della Democrazia Cristiana ma di tutto il mondo politico. L’ambiente d’allora lo esigeva. Infatti nella Prima Repubblica veniva attuata una democrazia puramente rappresentativa, ancora poco soggetta alle trasformazioni odierne di sistema e ad un’opinione pubblica onnipresente.

La sezione diciottesima intitolata Quomodo fides a principibus sit servanda2, ovvero in che misura i principi debbano mantenere la parola data, è uno dei capitoli più controversi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e venir meno agli impegni sottoscritti ufficialmente.
Viene descritto come il principe d’allora potesse governare servendosi della forza e come dovesse essere per metà uomo e per l’altro bestia.
Una bestialità divisa tra volpe (astuzia) e leone (violenza), entrambe necessarie all’azione di governo. L’astuzia si manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato. Tema che si lega strettamente a quanto affermato nel capitolo XV relativamente alla necessità per il principe di comportarsi in modo non etico perché lo Stato è un valore assoluto da preservare a ogni costo, baluardo contro il disordine e l’anarchia.
Inoltre il concetto della simulazione e della dissimulazione rappresentano i mezzi utili al sovrano per, non avendo tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui, parere di averle. Ciò non significa che il sovrano debba necessariamente compiere il male ma non deve rifuggire dal compiere azioni delittuose se necessitato e, al contempo, badare che non gli esca mai di bocca qualcosa che contraddica le migliori qualità che normalmente ci si attende dall’uomo di governo, per cui egli deve apparire pietoso, fedele, umano, leale, religioso. Un’immagine che identifica Andreotti con tutti i suoi segreti e ben è stata rappresentata nel monologo finale del film di Sorrentino.

“(…)Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute (…) Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta.”

La politica così rappresentata deve includere dentro di sé il male – nella simulazione e dissimulazione – per il bene. Il fine che giustifica i mezzi3 riutilizzando le parole di Machiavelli così che il Principe possa conservare lo Stato nei momenti di crisi.
L’epoca odierna della politica al cui centro risiede la trasparenza incondizionata, ostacola tutto ciò considerando il bene per il bene. C’è da chiedersi dove stia la verità e il buon ordine di governo. Comunque sia, il primo passo è prendere consapevolezza della realtà, agendo di conseguenza, senza dimenticare che la politica prima delle sue correnti è partecipazione.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti
2. Quomodo fides a principibus sit servanda, capitolo diciottesimo del Il Principe, N. Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti p.154
3. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti, cap. XVIII p.155

Immagine di copertina tratta da una scena del film.

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