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L’umanizzazione di un genio: “Il mio Godard” di Michel Hazanavicius

Ritratto appassionato e narcisistico divertissement: questi i due poli tra cui si snoda l’ultima pellicola del regista francese Michel Hazanavicius, Il mio Godard, in anteprima e in concorso al Festival di Cannes 2017, distribuito nelle sale italiane dal 31 ottobre.

Il film, basato su Un an après, autobiografia dell’attrice Anne Wiazemsky, prima moglie di Jean-Luc Godard, interpretata dalla splendida Stacy Martin, è una rivisitazione personale della parabola artistica di uno degli esponenti di maggiore spicco della Nouvelle Vague e dell’anticonformista rapporto sentimentale e lavorativo del cineasta con la giovane attrice.

Come coniugare vita privata e vita professionale e quale ruolo ha l’artista nel proprio tempo, dunque: questo il doppio fil rouge scelto da Hazanavicius nell’indagare la figura di Godard in una pellicola suddivisa in capitoli che ripercorrono la distribuzione di La chinoise, film accolto negativamente in una Parigi 1967 che sfila verso il maggio dell’anno successivo, il Festival di Cannes del 1968 interrotto per le proteste, il maoismo, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, la fondazione del cinema collettivo con il Gruppo Dziga Vertov, il rapporto controverso con Bertolucci.

Sullo sfondo quindi l’imprescindibile contesto storico con cui la cinematografia di Godard intrattiene legami indissolubili: il regista di À bout de souffle avverte infatti la necessità di una svolta in chiave di engagement, l’urgenza cioè di fare un cinema rivoluzionario non solo per i modi ma anche per i contenuti, non solo una nouvelle vague che trasgredisce il cosiddetto e impersonale “cinéma de papa” ma un cinema realmente rivoluzionario, che corrode la civiltà dei consumi e della mercificazione dei rapporti umani e che rifiuta il ruolo del regista nella convinzione che esso sottintenda un’ideologia autoritaria e gerarchica. Un uomo a tutto tondo Jean-Luc Godard, appassionato della vita e innamorato con un amore totale, ma asfittico e insensibile, della sua Anne, interprete di Veronique in La chinoise. Jean-Luc la vorrebbe tutta solo per sé sul set e a casa, come inseparabili compagni ovunque, diventando così geloso e cieco verso la maturazione professionale e personale della giovane e brillante ragazza di vent’anni più giovane. Parallelamente il Godard regista, protagonista in prima linea del maggio parigino, si interroga sul senso del fare cinema e sul ruolo dell’intellettuale: artista, creativo, estetico – come era stato nella sua prima stagione – ma anche impegnato, sovversivo, ideologico – come sarà nella sua seconda fase.

Nel tentativo di far coabitare le due anime, del regista Godard e dell’uomo Jean-Luc, Hazanavicus scade talvolta nel cliché, collezionando esibizionismi stilistici forzati, accumulando luoghi comuni e brandelli di antigrammatica godardiana in un film d’autore elegante e lezioso che nell’intento di ridicolizzare l’intoccabile Godard mette solo alla berlina se stesso.

Nessuno è perfetto o tutto è criticabile – suggerisce Hazanavicius ‒ e anche Godard da leggenda diventa macchietta: il regista di The Artist e di The Search ammira inevitabilmente JLG – sigla da cinefili – ma odia il contraddittorio Jean-Luc, borghese e regista di La chinoise, così il comico refrain della rottura degli occhiali scuri del cineasta puntualmente schiacciati durante ogni protesta, simbolo di un’irrimediabile miopia di Godard verso la sua epoca e verso Anne.

Il risultato è – come d’altronde nel titolo italiano – un Godard visto dalla lente di Hazanavicius, ridicolizzato e umanizzato al tempo stesso, il fondatore della Nouvelle Vague che guarda direttamente verso la sua stessa macchina da presa, fragile e in crisi, contraddittorio come tutti e per questo vivo.

Un film per tutti, non certo adatto per conoscere la figura di Godard ma sicuramente denso di spunti di riflessione e apprezzabile per il taglio scelto da Hazanavicius che compie un’operazione consapevole, cioè raccontare una propria passione inevitabilmente dal proprio punto di vista, quindi in modo soggettivo quindi in modo parziale, in una pellicola metacinematografica che riesce a intrattenere tutti, forse proprio per quelle distorsioni, per quei cliché ridondanti poco graditi dai critici.

Quanto agli amanti di Godard e della Nouvelle Vague, a mio avviso, escono dalle sale entusiasti, divertiti e ancora più radicalizzati nella loro passione cinefila, per una scenografia-confetto, quasi alla Wes Anderson, in un’amabile e ambivalente Parigi da cliché, rivoluzionaria e Coco Chanel, e per la brillante interpretazione di Louis Garrel, che da attore bello e tenebroso ha colto l’essenza del Godard di Hazanavicius, cinico e snob, spavaldo e umano, immortale come la frase che scandisce con amara nonchalance il film – Le Redoutable nell’originario titolo francese – leitmotiv del reportage sul sottomarino nucleare francese costruito nel 1967: «Così va la vita, a bordo del Redoutable».

 

Rossella Farnese

[Immagine tratta da Google Immagini]

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