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Se questa è filosofia (prima parte)

In parole povere stiamo dicendo che non possiamo fare a meno della storia della filosofia (…) allora questo non potere fare a meno diventa una domanda su questo non potere fare a meno, diventa la richiesta che ci sia esibito come tutto ciò si è dato. E là dove non c’è questa domanda, dove non è suggerita, sollevata, ricordata, non c’è esperienza filosofica, non c’è esercizio filosofico, c’è solo esercizio di cultura. Ma se la cultura è infine libertà, la mera cultura storiografica non è esercizio di libertà, perché è l’esercizio di essere soggetti alla cultura e non soggetti della cultura, soggetti alla pratica, senza nemmeno essere consapevoli di esserlo.

C. Sini, La verità pubblica e Spinoza

Ormai il sapere occidentale ha un suo orientamento ben preciso, che emerge con particolare evidenza nei luoghi del sapere istituzionalizzato: le università. Chiunque abbia un minimo di confidenza con queste, infatti, sa bene che ciò che avviene là dentro è una trasmissione di dati. Cosa che è comprensibile nel caso di quei saperi direttamente finalizzati alla realizzazione di qualcosa di pratico – anche se questo non li esonera da una riflessione sulla loro stessa essenza, che è invece quasi sempre assente. Cosa che però avviene anche per quelle discipline che avrebbero il proprio fine in se stesse, quindi essenzialmente in una riflessione su se stesse, non nella ricerca di un utile esterno, e che invece diventano sempre più un archivio di dati trasmissibili e verificabili, nozioni soggette ad una metodologia unica, universale e predeterminata.

Nel caso della filosofia (che per mia disgrazia mi ha fatto suo, avrei potuto vivere molto più serenamente e comodamente se non fossi stato toccato da questa mania) questo si mostra con evidenza nella riduzione della stessa ad un esercizio filologico e storiografico, al punto tale che i dipartimenti universitari di filosofia dovrebbero a rigore essere rinominati come dipartimenti di filologia della filosofia e storia della filosofia, anziché continuare a indugiare nell’equivoco di fare filologia e storiografia, nominandole però come filosofia. Non ci vuole poi molto a discriminare tra un soggetto e un complemento, e sulla base di questa semplice distinzione si potrebbero creare dipartimenti ad hoc – fermo restando che non esiste una storia della- e una filologia della- che non sia già una filosofia, tuttavia, se lo storico e il filologo ci tengono ad essere annoverati come scienziati che maneggiano dati, anziché come pensatori che in quanto tali hanno come primo problema quello di problematizzare la natura del proprio stesso pensare, allora si potrebbe ricorrere ad una divisione anche istituzionale. Di pari passo, si dovrebbe con chiarezza e onestà evitare di usare l’appellativo di filosofo per chiunque si interessi di filosofia, differenziando invece tra storici, filologi, cioè studiosi,  e filosofi – cose che a volte possono anche coincidere nella stessa persona, ma restando pur sempre cose diverse.

Sia chiaro che con questo non voglio stabilire una gerarchia tra la figura dello storico, del filologo, e del filosofo tout court. Vorrei però metterne in evidenza le differenze, che a guardarsi intorno sembrerebbero essere meno ovvie di quel che invece sono.

Ora, a quali conseguenze porta questa indistinzione? Ne richiamo di seguito alcune.

Primo. Ritenere che si possa fare filosofia solo dopo averla studiata. Ritenere quindi che si possa essere filosofi solo dopo essere stati filologi e/o storici della filosofia.

Eppure è la stessa storia della filosofia a fornirci esempi di filosofi che sono stati tali senza essere stati studiosi di filosofia. Un esempio su tutti: Wittgenstein. E se si hanno buone orecchie si potrà sentire che spesso c’è più filosofia nel cosiddetto uomo della strada (perlomeno, in quelli di un passato non così omologato) che nell’accademico scientificizzato.

Secondo. Ritenere che vi sia un’unica modalità corretta di approcciare il pensiero altrui e che tale modalità sia lo studio finalizzato all’estrazione di dati oggettivi.

Ma questo apre (almeno) un problema a due facce. Da un lato, si assiste alla cancellazione di qualsiasi altra modalità di contatto con l’alterità che non sia quella basata sull’estrazione di dati da esibire alla verifica della comunità scientifica. Dall’altro, svanisce, tra le altre cose, quella possibile relazione con l’alterità mossa dall’ascolto disinteressato di ciò che ci affascina – cosa che, per fortuna, rimarrà sempre non misurabile e quindi non “datizzabile”. Conseguenza non da poco di questo problema è che in tal modo un progresso del pensiero si potrà avere solo in termini quantitativi e non qualitativi. Ovvero, nella forma dell’accrescimento aritmetico di dati, tutti collezionati con una metodologia universale, prestabilita, al di fuori dalla quale vi è il nulla (posta quindi come una meta-metodologia), anziché come rottura di un certo ordine epistemico e apertura ad altre possibilità ermeneutiche.

A scanso di equivoci, con questo non voglio aprire alla dimensione della chiacchiera – da cui peraltro non si è al riparo neanche con la conoscenza nozionistica. Intendo invece che la fondatezza argomentativa che non ci fa cadere nella chiacchiera non si trova nel nozionismo, ma nella nostra onestà intellettuale – per fortuna, anch’essa non misurabile.

Terzo. Ritiene che si possa parlare di qualcuno/qualcosa, senza invece avvedersi che ogni parlare è sempre un parlare su qualcuno/qualcosa.

Provo a spiegarmi. Una volta ridotto un autore o un tema a un cumulo di nozioni, ovvero una volta ridotta una vita ad un manuale di conoscenza, va da sé che poi si ritenga di parlare di quelle cognizioni. Questo impedisce di avvedersi che è esattamente il nostro parlarne a determinare quelle nozioni e che quindi un parlare di è in realtà sempre un parlare su, un parlare a partire da, un parlare che sulla base di una sollecitazione iniziale crea concetti che non saranno mai una descrizione esaustiva di quella sollecitazione iniziale, un suo esaurimento nella verbalizzazione – essendo l’origine del pensiero nell’intuizione, come Platone ha magistralmente argomentato, collocando tale intuizione nell’istante, che è atopos, fuori dal tempo cronologicamente misurabile, ed essendo quindi il logos (pensiero/parola) che cerca di dare corpo a tale intuizione, già una forma di reificazione della stessa. Insomma, ogni parlare altro non può essere che un parlare intorno a qualcosa.

Questo apre ad (almeno) due rilevanti conseguenze. Da un lato, poiché neanche il ricorso ad un nozionismo che si pretende oggettivo è esentato dall’essere una costruzione soggettiva, tanto vale assumersi esplicitamente la responsabilità, e la gioia, della costruzione di una relazione col mondo basata sul modo specifico in cui lo interroghiamo, che poi altro non sarebbe che il tentativo di elaborazione di un pensiero consapevolmente autonomo – come dice quel proverbio popolare (testimonianza di come bassa cultura e alta cultura si tocchino, è quella media il problema): se porti un falegname e un poeta in un bosco, non vedono lo stesso bosco. Dall’altro lato, se ogni parlare è sempre un parlare attorno a qualcosa, essendo impossibile afferrarne l’intuizione originaria, allora questo parlare diventa tanto più ricco, quante più traiettorie compie attorno al suo inafferrabile centro. Ne consegue che, diversamente da come la corrente impostazione filologica ci porta a credere, leggere un autore nella sua lingua originale è tutt’altro che un arricchimento del pensiero. In quel modo si andrà infatti ad eseguire sempre la stessa traiettoria attorno a quel centro inafferrabile. Diversamente, leggerlo in una, o diverse, lingue tradotte, oltre a farci abbandonare la pretesa tanto ossessiva quanto irrealizzabile di voler afferrare quel centro, sotto forma di dato filologico, permette di eseguire altre traiettorie attorno a quel centro inafferrabile, unica possibilità per l’arricchimento del pensiero.

Quarto. Poiché, nonostante la trionfale avanzata delle scienze, l’uomo non sarà mai scientificizzabile in toto (altrimenti, paradossalmente, la stessa scienza dovrebbe arrestarsi, essendo invece il suo motore, come in tutte le attività umane, una costante spinta al trascendimento di ciò che è dato), ci sarà sempre un resto che avanza. E in un mondo in cui l’unica alternativa alle scienze, comprese quelle cosiddette umane, è la religione, questo resto sarà preso in carico dalle religioni. Ed ecco che la scientificizzazione dell’uomo ha come esito paradossale l’esplosione delle religioni. È così che i due fenomeni oggi convivono.

(Seconda parte dell’articolo, qui)

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

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