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Rosa, la società e l’ossessione della maternità

Rosa, giovane donna cosentina, passa alla cronaca dopo aver simulato una gravidanza, inscenato il ricovero con la presunta nascita del figlio e, infine, rapito una neonata all’interno di una clinica del luogo, fingendola propria. A colpire in questa storia sono la premeditazione del gesto, l’ingenuità di quanti sono caduti nell’inganno e la difficile categorizzazione di un tale atto al cospetto dell’opinione pubblica. Il rapimento di un neonato è senza dubbio un crimine e questo articolo non vuole sminuirne la gravità, ma si pone l’obiettivo di trovare una spiegazione che vada al di là della semplice condanna, andando ad analizzare, attraverso il testo di Orna Donath Pentirsi di essere madri, il contesto e la società, troppo spesso ritenuti estranei ai fatti.

I fatti analizzati narrano, oltre a un rapimento, dell’appropriazione del ruolo sociale della donna in dolce attesa. Ad oggi, secondo il Ministero della Salute, la fertilità della donna risulta essere prossima allo zero intorno ai 50 anni. Rosa aveva 51 anni ed era figlia, sorella e zia, ma non madre. È evidente che corresse contro il tempo, verso «un’idea che era diventata un’ossessione» (Carlo Macrì, Corriere della Sera, 23 gennaio 2025). Orna Donath, nella prefazione, scrive: «Ti pentirai di non aver avuto figli! Ricorda, te ne pentirai!» (O. Donath, Pentirsi di essere madri, Bollati Boringhieri, Torino 2024, p. 9), una profezia che, secondo la scrittrice, accompagna le donne che hanno deciso di non diventare madri in una società che tratta le donne come «innatamente madri» (ivi, p. 24). È a causa di queste profezie che le donne, continua Orna, finiscono nella trappola di credenze storiche e sociali, le quali producono in loro la falsa convinzione che l’appartenenza al sesso biologico femminile comporti un’assenza di scelta, un destino da rispettare.

«La maternità garantirà alla donna un’esistenza legittima, degna di essere vissuta.. dandole modo di connettersi con la catena generazionale delle nonne e della madre, di entrare nel gruppo delle donne che hanno partorito.. le darà la possibilità di esercitare un potere, di creare una famiglia, di evitare la solitudine e di avviare un riscatto di ciò che non ha funzionato» (ivi, p. 27).

Queste promesse, si legge, accompagnano le donne nella loro giovinezza: le stesse ricompense che non concepiscono, considerate spesso imperfette, carenti. L’ombra di una società, ancora oggi prettamente patriarcale e biologicamente deterministica, sembra guidare inconsciamente le giovani donne verso il loro “dovere”, lo stesso che viene spesso messo da parte su richiesta di una emergente società della prestazione1, che le vuole in carriera prima che madri, produttrici prima che doverosamente riproduttrici. La filosofa Diana Tetjens Meyers2 parla di colonizzazione dell’immaginario femminile, ovvero dell’indottrinamento sociale sul tema della maternità come unico copione immaginabile, che penetra a tal punto nella coscienza delle donne da soffocarne qualsiasi alternativa possibile. La maternità diventa così il paradigma della normalità.

«Vedevo i parenti di mio marito che avevano figli piccoli… volevo essere uguale… Sai, l’opinione della gente… intorno a me tutti facevano figli, era la norma, un argomento sacro» (ivi, pp. 33-35).
«Il mio corpo e la mia psiche non mi stanno dicendo che ormai sarebbe arrivata l’ora, ma ci pensa la società a rammentarmelo, in continuazione…» (ivi, p. 37).

Ecco che Rosa non sembra aver più agito da sola nella sua criminale impresa, ma tutto rientra in un quadro di sofferenza psichica devastante, al fianco di una società decisamente complice. Non si tratta di negare la responsabilità individuale, ma di riconoscere che le scelte delle persone non avvengono nel vuoto: sono sempre anche il risultato di influenze sociali, storiche e culturali. In una società che tende a deresponsabilizzarsi, è più facile condannare la follia del singolo piuttosto che interrogarsi sulle radici del problema. Ma se vogliamo davvero evitare che simili tragedie si ripetano, dobbiamo iniziare a ripensare i modelli e le aspettative che imponiamo alle donne. Dobbiamo indagare, in primis, la società, colpevole di una pressione psicologica alla quale non tutte hanno i mezzi per riuscire a resistere o, ancor peggio, a sopravvivere.

 

NOTE
1. Paradigma fondato sullo sfruttamento del desiderio (cfr. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Futura Editrice, Roma 2024).
2. Cfr. D.T. Meyers, The Rush to Motherhood, in “Journal of Women in Culture and Society”, 26 (3), 2001, pp. 735-773.
[Photocredit Zach Lucero via Unsplash.com]

Alessio Ruizzo

Persuasivo, disordinato, idealista

Soprannominato Benjamin Button; classe ’88, anche se il soprannome lascia supporre che ne dimostri molti di più: chi dice per saggezza, chi per il numero di capelli bianchi. Ho trascorso una parte della mia vita cercando il mio posto nel mondo, senza mai riuscirci del tutto. Originario della provincia di Caserta, vivo a Nonantola, in […]

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