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L’amore (non) è un (mio) problema – Sinfonia kierkegaardiana

ALLEGRO, NON TROPPO

«Per lei, io ero troppo pesante; per me, lei era troppo leggera.»

(Diario, 1959)

Proponiamo qui una sinfonia in forma un po’ filosofica. Buon ascolto.

VIVACE, UN PO’ MAESTOSO

«Aveva eccessiva presunzione. […] Avrei dovuto spingerla a rompere con me.
Sarebbe stato il trionfo della sua presunzione.»

(Diario, 1952)

Brutta bestia la presunzione, l’idea d’esser migliori degli altri; portata all’estreme conseguenze, essa giunge a incidere (con la viva crudezza degli artigli del male) persino i rapporti di coppia. Ci vuole, certo, non poca cattiveria per abbracciare, o sfiorare con occhi o dita, una persona che giudichiamo “inferiore a noi”; ciò nonostante non credo che questo atteggiamento, pur essendo ipocrita, sia raro.

Ma mettiamoci intanto d’accordo su cosa significhi amare: per quanto mi sia interrogato, non ho trovato miglior definizione di questa, che, tuttavia, continua ad avere le torbide vestigia d’una banalità: amare significa “essere certi che si darebbe la propria vita per quella di un altro”.

Ora, se questa definizione è corretta, chiediamoci: come potrei dare la mia vita (meravigliosamente unica e irripetibile) a favore di qualcuno che giudico inferiore a me? È un controsenso, un’idiozia bella e buona!

La presunzione è l’anti-amore, una patologica deviazione di esso.

Ma, come ogni cosa nella vita, anche una perversione del genere può essere annichilita.

Se ci accorgiamo che “l’altra metà del nostro cielo” è, in verità, il soffitto di un porcile dipinto d’azzurro, conviene fuggire; ora, Kierkegaard sottolinea che, nel caso d’un rapporto con un presuntuoso, sarebbe opportuno farsi lasciare, piuttosto che lasciare … per una volta dissento dal Maestro: la vita è troppo breve per svendere la dignità a favore dell’altrui supponenza.

Concedere ai “palloni gonfiati” di trionfare su noi non per amore, ma per sadismo, significherebbe esser complici d’una malattia mortale.

ANDANTE MODERATO

«Se non fossi stato malinconico, stare con lei m’avrebbe dato una felicità quale mai avevo sognata.»

(Diario, 2804)

L’uomo non è la somma dei suoi pregi, ma sintesi dinamica d’ogni positività e d’ogni difetto. È, insomma, uno spirito.

Innamorarsi significa essere con-vocati verso l’altro spiritualmente e non fisicamente (il desiderio del corpo si chiama infatuazione), né pneumaticamente (perché se ami solo l’anima, allora ammiri); il che significa che, con l’atto stesso d’amare, ci leghiamo totalmente a una alterità, perché ci interessa ogni cosa dell’altro, persino i suoi lati peggiori, e perciò li sopportiamo. Ma la sopportazione innamorata è sopportazione elevata alla potenza di sé stessa: è, insomma, compassione.

È compassione nel senso che, solo quando patiamo-con, o patiamo-per, l’oggetto del nostro amore, allora viviamo.

È dalla compassione che sorge la volontà di mantener vive tutte le relazioni (anche sbagliate): nella sua fatica vivificante, l’innamorato crede di veder nell’alterità il suo proprio riflesso significante. Un innamorato vero, proprio perché compassionevole, sopporta (e accetta!) sinanche il disprezzo dell’amato, annichilendosi a suo favore pur di non perderlo.

In breve, la compassione è la forma più completa d’amore, perché si rivolge al tutto dell’alterità: amando incondizionatamente, cerca di correggere i difetti ed esalta i pregi, ma proprio per questo aumenta esponenzialmente il rischio di sofferenza.

Se ci limitassimo all’attrazione o all’ammirazione, ogni delusione passerebbe istantaneamente: invece compatendo (amando totalmente) noi mettiamo in gioco non solo il corpo o l’anima, ma il nostro spirito, ovvero noi stessi in completezza: ci affidiamo all’altro e siamo in sua balìa, senza speranza di approdo sicuro, se non nel porto del suo cuore.

A meno che, a freno del nostro cuore, non si ponga la forza straziante della malinconia.

PRESTO (TRISTE MOLTO)

E forse abbiamo solo ora trovato la definizione corretta di “amare”: affidare il nostro spirito a un estraneo, e sperare che non lo venda per trenta denari … e forse hanno ragione gli inglesi che, memori del verbo norreno “at love” che significa “impegnarsi”, il loro amore lo chiamano “love”, cioè “impegno”. Impegno a non far mai soffrire l’altro, completerei io.

David Casagrande

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