Home » Rivista digitale » Filosofia pratica » Esistenza » La cultura agonistica greca nella poesia di Esiodo
Esiodo

La cultura agonistica greca nella poesia di Esiodo

Sin dagli inizi del pensiero greco assume cospicua importanza, tra le più sottili massime morali, quella  che esorta al lavoro concreto, all’operosità nella vita privata e all’impegno adottato nella quotidiana  amministrazione dei beni. Depositario di questa genuina cultura arcaica è il poeta beota Esiodo  (VII/VIII secolo a.C.), rappresentante dei costumi e dei valori spirituali del mondo rurale del suo  tempo, che ne Le opere e i giorni elenca e descrive efficacemente i mezzi e le risorse di cui l’uomo  dispone per procurarsi sostentamento tramite il lavoro. Ancora più sapientemente, e in certo senso in  un modo controintuitivo per noi moderni, Esiodo riconosce che l’invidia e la contesa (Eris), ovvero un sano spirito agonistico, per esempio tra un contadino e l’altro o tra un vasaio e un altro vasaio, possono incitare l’uomo ad abbandonare i propri futili ozii e, per così dire, ad imbracciare gli  strumenti per iniziare finalmente ad arare il proprio campo. Non solo, ma lo sospingono anche a desiderare di produrre più del proprio rivale, ad adoperarsi alacremente, ad essere insomma il migliore nella propria attività sino a ricavarne anche enormi guadagni. Occorre perciò rivolgere la propria attenzione a questo insolito pensiero, oggi in parte obliato ma assai fecondo.  

Se la cultura mondiale corrente educa spesso e volentieri a considerare biasimevole, demonizzandolo in modo univoco e fuorviante, ogni impulso alla gelosia nei confronti di chiunque, amico o nemico, Esiodo ci rammenta l’importanza di un certo sentimento invidioso e rivaleggiante: una lecita contesa,  un agonismo apportatore di benefici. Quest’ultimo non ha quindi che fare con un odio autodistruttivo, che indurrebbe ad una mera critica della vita altrui, arida e fine a se stessa: esso è piuttosto la fonte di un animo zelante, preoccupato di darsi da fare, di industriarsi per superare l’altro nella medesima arte, e (perché no?) di perseguire agi e credito sociale. È così che d’un tratto «il vicino emula il vicino che  alla ricchezza attende» (Esiodo, Le Opere e i giorni, 1994). Esiodo sa che il suo popolo vive  nella povertà, nella penosa fatica e soprattutto nella precarietà dei beni che ogni anno produce, di cui non si sa mai fin quanto potrà disporre, poiché una siccità o una violenta carestia possono cancellare i frutti del proprio raccolto, così come una tempesta può abbattersi sulla propria imbarcazione e mandare in rovina tutta la mercanzia. Una realtà cruda e disseminata di pericoli quella della Grecia arcaica, ma a rassicurare questa visione sussiste la virtù del lavoro, che è l’unico vero bene attraverso cui far fronte alle più forti necessità.  

Ma Esiodo non dimentica che, accanto all’invidia giovevole, esiste da sempre anche una Eris trista e  malevola, che «favorisce la guerra luttuosa e la discordia» (ivi), cui molte volte non si può sfuggire, ma che non si dovrebbe coltivare, perché non soltanto non reca vantaggi a se medesimi, ma per giunta è fonte di ingiustizia e di tormenti per gli uomini tutti. Così il poeta ammonisce severamente il fratello Perse, di cui ci dice che è iniquo e litigioso, avendo corrotto i giudici durante un processo familiare ed avendo privato Esiodo della sua parte spettante di patrimonio. Se Perse fosse invidioso nel senso buono e rispettasse il diritto impartitogli dal sommo Zeus (divinità che soprattutto in quest’opera di Esiodo personifica la giustizia tra mortali ed immortali), si procurerebbe molti più beni di quanti ottiene con la sua spregevole avidità.  

Anche autori successivi del calibro di Platone e Aristotele, allievi senz’altro di Esiodo come del resto ogni greco, tenderanno a distinguere due generi ben diversi di invidia: uno phthònos, che porta a  gioire del male e a rattristarsi del bene altrui, ed uno zèlos, una gelosia che esorta ad emulare l’uomo operoso, tale per cui si cresce virtuosamente. Non da ultimo Friedrich Nietzsche, in una delle sue Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, non a caso dal titolo di Agone omerico, riprende il tema  esiodeo celebrando il buon egoismo e lo spirito della contesa, giungendo ad asserire che «ogni attitudine deve svilupparsi attraverso la lotta: così ordina la pedagogia popolare greca» (F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, 1991). Un insegnamento che, dunque, resta scolpito nella memoria dei secoli e su cui ancora oggi si fonda gran parte dell’esperienza umana.

 

 

Tommaso Quaglia
Nato nel 2001 in Piemonte, ha frequentato gli studi classici presso il Liceo Statale Enrico Medi (Villafranca di Verona). Iscritto all’Università degli Studi di Verona, si è laureato in filosofia con una tesi dal titolo “Nietzsche e l’ideale ascetico”. Nondimeno, in quanto nutre una profonda passione per tutto ciò che concerne l’antichità classica, anche nei suoi molteplici aspetti storico-filologici, ha deciso di proseguire il percorso di formazione presso Padova, intenzionato a specializzarsi nello studio della filosofia antica. In particolar modo la sua ricerca è volta all’approfondimento delle problematicità e dei recenti sviluppi tematici inerenti al dibattito intorno alla scuola peripatetica.

[Photo credit GR Stock via Unsplash]

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!