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Hillman

Domande e risposte di senso da “Il codice dell’anima” di Hillman

Ricordo di aver acquistato, parecchi anni fa, il libro Il codice dell’anima di James Hillman perché molto incuriosita dal trafiletto in azzurro scuro dell’aletta anteriore. Lì, proprio all’inizio, vi era infatti riportata la seguente domanda:

«Esiste qualcosa, in ciascuno di noi, che ci induce a essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie – anche se talvolta simili passaggi possono sembrare casuali o irragionevoli?» (J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 2008).

La risposta dell’autore, a questo quesito, è assolutamente affermativa. Quel qualcosa esiste ed è proprio ciò a cui si riferisce lo psicanalista e filosofo Hillman nella sua teoria della ghianda. Teoria che desidera evidenziare quella particolare unicità che ci anima da dentro, ovvero a quello specifico «qualcos’altro» (ivi, p. 167) che non viene determinato né dai nostri geni, né dall’ambiente in cui viviamo. E, a causa dell’invisibilità di questo qualcosa, egli sceglie di articolare il suo pensiero descrivendo degli scorci di vita di personaggi famosi allo scopo di mostrare, proprio nell’eccezionalità, l’esistenza del daimon. Questa figura era, secondo il mito di Er raccontato da Platone nella Repubblica, una sorta di custode-guida dell’immagine che la nostra anima avrebbe scelto e che avrebbe dovuto realizzare una volta discesa sulla terra. Vediamo quindi, a partire dal titolo e dal sottotitolo del lavoro di Hillman, di illustrare brevemente il suo messaggio principale per appropriarci (o riappropriaci) dell’importanza di non accantonare mai la costruzione di senso di quello che ci capita nella vita

Mentre il titolo Il codice dell’anima si riferisce a qualcosa che è inscritto nella nostra interiorità più profonda, la triade del sottotitolo Carattere, Vocazione, Destino fa riferimento all’essenzialità di una vita in cui qualcosa che resiste al cambiamento (il carattere) risponde a una chiamata (la vocazione) portando a compimento una realizzazione (il destino). Infatti, secondo il pensiero di Hillman, la nostra anima racchiude in sé una particolare «immagine innata» (ivi, p. 19) che non è facile decifrare perché è il cuore che la «custodisce» (ivi, p. 68) e non la si trova nella mente. Anzi, «la mente può procrastinare la chiamata, reprimerla, tradirla» (ivi, p. 264) perché, come specifica l’autore, «più ti mantieni fedele al tuo daimon, più sei vicino alla morte che appartiene al tuo destino» (ivi, p. 266). Sicché, probabilmente, la difficoltà ad ascoltare con pienezza il daimon potrebbe avere a che fare con l’allontanamento nella mente del pensiero della propria morte quasi che questo compagno invisibile stesse con noi per ricordarci che abbiamo a disposizione un tempo finito per esprimere, nel mondo, la nostra vocazione. Da qui, forse, l’«urgenza indefinita, che turba, unita a un senso di indubbia importanza» (ivi, p. 248) quando si sperimenta lo «scopo» (ibidem) della propria ghianda. Ci si accorge, infatti, di non poter più perdere tempo perché la consapevolezza della fine diventa l’irremovibile necessità che vibra ed espande all’indietro le maglie del possibile della vita.

E l’intero testo di Hillman intende proprio convincere chi legge dell’importanza del daimon perché, forse, vivere ascoltandoci dal cuore è l’unico modo per sentire quel qualcosa che chiama come da un altrove. L’autore, infatti, sembra presentare esempi di daimon per, alla fin fine, esortare chi non ha decifrato il suo codice a credere che è possibile farlo. Ma questo presentare alla vista l’agire del daimon potrebbe non bastare se chi guarda non è pronto, in quel momento, a vedere. E si può benissimo rischiare di non esserlo mai se nella quotidianità non si ha abbastanza spazio e/o volontà per un dialogo interiore che è, nella pratica, una vera ricerca. Questo perché, come spiega lo stesso Hillman, il fato «richiede la responsabilità dell’analisi» (ivi, p. 245) nel senso che quello che ci capita nella vita esige la costante domanda e risposta di un nostro nutrito e meditato perché. 

Ecco che, allora, la disponibilità alla tessitura di un significato per le particolarità e gli accadimenti che smuovono, nel bene o nel male, l’ordinarietà della nostra vita, rappresenta la via maestra per poter ascoltare l’eco che, mai stanco, insiste su un qualcosa in noi che sa riconoscerne il richiamo. Ed è proprio nel dare credito alla sensazione di questo invisibile che la nostra immagine, impressa in fondo all’anima, vorrà, forse un domani, risalire per poter essere vista perché, quel giorno, gli occhi della mente saranno pronti a vedere. E, probabilmente, come in uno specchio ondulato in mare aperto si vedrà che il codice dell’anima è la matrice che tiene viva l’anima stessa.

 

NOTE
Photocredit Marek Piwnicki via Unsplash

Anna Castagna

dolce, creativa, solare

Sono nata e cresciuta a Verona. Ho conseguito la Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Verona nel 2004. Ho lavorato per più di quindici anni in diverse realtà aziendali e vivo a Sesto al Reghena in provincia di Pordenone dal 2010. Mi piace molto leggere per capire quello che mi circonda. Approfondisco con […]

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