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David Lynch oltre il volto rassicurante della realtà

Alla vigilia di Twin Peaks 3, cerchiamo di capire perché il cinema di Lynch è così perturbante.

«La mia infanzia era fatta di case eleganti, strade fiancheggiate da alberi, il lattaio, i cortili del retro dei palazzi, i cieli blu, le staccionate, l’erba verde, i ciliegi. L’America media come si pensa che sia. Ma dai ciliegi cola fuori la resina, con milioni di formiche rosse che ci strisciano sopra. Mi sono accorto che se si guarda un po’ più da vicino questo mondo meraviglioso, sotto ci sono sempre delle formiche rosse».

Così David Lynch, il più visionario regista d’America, racconta la sua infanzia. Una descrizione che ricorda la splendida scena iniziale di Velluto blu, in cui la telecamera prima inquadra una staccionata bianca e delle rose talmente rosse da sembrare finte, con in sottofondo una musica melensa. Poi si avvicina al suolo, fino ad arrivare ad un primo piano serrato su uno scarafaggio, con la musica che viene sostituita dai versi dell’insetto.

È da quasi quarant’anni che Lynch squarcia la tranquilla patina superficiale della quotidianità per rivelarci un mondo sotterraneo che pulsa di vita, di potenzialità inespresse, di angoli bui e misteriosi nei quali perdersi, perché, come egli stesso ama ripetere, “perdersi è meraviglioso”.

È questo che rende i suoi film unheimlich. Questa parola tedesca viene di solito tradotta in italiano con “perturbante”, ma come riflette Freud in un saggio dedicato al tema, essa è in realtà impossibile da rendere in altre lingue. Il termine è la negazione di heimlich, che significa sia “familiare” sia “nascosto”; esso indica quindi «tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato»1. Lynch incrina la superficie del reale, la deforma fino a mostrarci quanto alienante e assurdo possa essere ciò che riteniamo familiare, quanti segreti si custodiscano appena sotto la crosta del quotidiano.

La realtà, surreale ed enigmatica, si contrappone sempre al sogno, che appare invece come uno spazio più abitabile. Il sogno di Lynch non è quello di Freud, che lo definisce come un «appagamento (camuffato) di un desiderio (represso, rimosso)»2, un desiderio inconscio che affonda le sue radici nella vita infantile. Il regista americano sembra invece riallacciarsi a quella corrente di pensiero, guidata da Bloch e Bachelard, che considera il sogno notturno «un rapitore, il più sconcertante dei rapitori, perché si impadronisce del nostro essere»3 e rivaluta invece il sogno diurno come spazio di libertà in cui immaginare una realtà diversa.

Lynch afferma infatti «Quando si dorme non si controllano i propri sogni. Io amo sprofondarmi in un mondo che sia sì onirico, ma costruito da me, un mondo che io ho scelto e sul quale ho pieno controllo. La rêverie, come la chiama Bachelard, è una condizione in cui il soggetto crea il proprio mondo senza vincoli oggettivi, del resto “di quale altra libertà psicologica godiamo oltre a quella di fantasticare?»4. I film di Lynch sono fughe dalla realtà che non approdano negli abissi dell’inconscio, ma in un mondo trasfigurato, che sembra più autentico di quello reale perché è modellato dalla nostra fantasia. Essi sono inquietanti non perché ci rivelano i mostri del nostro inconscio, ma perché ci svelano quanto la realtà quotidiana sia spaventosa, grigia poiché non colorata dal nostro desiderio.

Strade perdute inizia e finisce con l’inquadratura di una strada di notte, che scorre rapida davanti alla telecamera. Non si vede alcuna destinazione, solo la linea di mezzeria che viene inghiottita dal buio. Così è il cinema di Lynch, che non si accontenta mai di una realtà statica ma preferisce guardare in avanti, esplorare le possibilità ancora incompiute lontano dalla quotidianità, percorrere le strade perdute del significato.

 

 

NOTE:

1. S. Freud, Sul perturbante, in “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio”, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pag. 275.
2. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Mondadori, Milano, 2012, pag. 106.
3. G. Bachelard, La poetica della rêverie, Edizioni Dedalo, Bari, 2008, pag. 151.
4. G. Bachelard, ivi, pag. 105.

 

Lorenzo Gineprini

Lorenzo Gineprini: nato nel 1994 a Torino, dove studia Filosofia. Redattore del Brockford Post, collabora anche con altre riviste. Appassionato della Germania e della filosofia tedesca, che ama far dialogare con fenomeni pop contemporanei: dal cinema alla moda, dalla musica alle serie tv.

[Immagine tratta da Père Ubu via Flickr]

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