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Comunità di ricerca filosofica: come allenare le nostre emozioni

Negli ultimi anni si è rivelato quantomai necessario investire energie e risorse nell’Educazione Emotiva: educazione, cioè, al riconoscimento, all’accettazione, al conferimento di senso e al confronto con le emozioni, da sempre il grande scoglio dove bambini e ragazzi vanno ad incagliarsi. La Philosophy for Children di M. Lipman, come pratica educativa fondata sul dialogo e la ricerca, si pone in prima linea con una metodologia per una messa in discussione di questi “scuotimenti”1 antichi quanto l’uomo stesso. Lipman, nella propria opera Educare al pensiero (Thinking in education, 2002) affronta il tema delle emozioni scartando l’idea di un concetto puro e inserendole direttamente nelle dinamiche gnoseologico-comunicative-relazionali tra il Soggetto e Mondo. Le emozioni, dunque, vengono concepite come veri e propri registi del nostro “teatro mentale”. Non a caso l’emozione viene definita come una relazione ecologica tra l’organismo e il mondo2ed il corpo come teatro di ciò che accade intorno.

La psicologia sostiene e chiarisce molto precisamente il ruolo dell’emozione nell’arco delle nostre vicende quotidiane: le teorie più datate che mettevano in primo piano il Q.I. dei soggetti sono state puntualmente smentite dalla comparsa e dallo sviluppo delle teorie di Salovey e Mayer sulla cosiddetta intelligenza emotiva. L’attitudine ad essere in contatto con il nostro mondo interno e sviluppare quella che viene definita ‘consapevolezza di sé’ rappresenta la chiave per sviluppare la ‘consapevolezza sociale’, quell’abilità assolutamente fondamentale per la gestione dei rapporti col Mondo. Lipman descrive minuziosamente le relazioni che le emozioni creano con l’esterno: 1) le emozioni genuine si fondano su credenze (es. avere paura perché si crede di essere in pericolo); 2) l’emozione è strutturata; 3) le emozioni focalizzano la nostra attenzione; 4) le emozioni danno risalto alle cose. La forma paradigmatica del pensiero emotivo viene identificata nella Cura, generata da quella tensione angosciosa propria dello stare al mondo che sta ‘prima’ di ogni comportamento e situazione effettivi3: non è concepibile, infatti, pensare emotivamente a qualcosa senza che questo oggetto non abbia alcun valore o importanza. L’attaccamento, il valore, l’emozione, sono le tracce sulle quali camminiamo creando e plasmando pensieri. L’educazione alle emozioni, quindi, non può non implicare un contesto sociale e l’ambito della moralità: le emozioni vengono insegnate sulla base dell’adeguatezza alla situazione ma non è possibile richiamarle a comando; e provare un’ emozione solo perché già si crede di doverla pensare è una soluzione semplicistica e disfunzionale (es. i maschi non devono essere tristi e piangere, le femmine non devono arrabbiarsi e reagire).

Invece di creare un format educativo fondato unicamente su un opinabile background culturale o dalle mode del momento, si dovrebbe piuttosto cercare di spingere le persone a manipolare le proprie strutture entro le quali sono rinchiuse tali emozioni, mettendo in primo piano le buone ragioni che ne stanno alla base. La ragionevolezzatermine molto generico, acquisisce una grande importanza nel dare assetto alla sfera emotiva: si tratta di un processo assai complesso che serve ad affrontare una realtà altrettanto complessa, piena di pregiudizi e interazioni tra diversi personaggi. La P4C e più in particolare il setting della Comunità di Ricerca Filosofica (CdRF), quindi, rappresentano un banco di prova privilegiato dove il pensiero caring fonde l’educazione emotiva a quella critica, promuovendo un dialogo teso all’approfondimento e alla descrizione di questa Ragione “a due facce”. I ragazzi hanno la possibilità di imparare a identificare linguisticamente le proprie emozioni – potremmo citare la nota affermazione di Wittgenstein “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio Mondo” – creando associazioni di senso4: la stessa Martha Nussbaum chiarisce  quanto sia importante mettere al servizio dei ragazzi un linguaggio idoneo a scoprire e svelare la nostra esperienza emozionale.

Le emozioni, dunque, prendono la forma dei giudizi impliciti nei nostri atti: ogni nostra emozione in reazione ad un fatto e un contesto precisi scaturisce dunque da una valutazione. Noi giudichiamo una situazione in base a innumerevoli sfumature più o meno evidenti, che si manifestano inevitabilmente all’interno della nostra reazione emotiva.

Le emozioni, dunque, non sono appropriate perché seguono le prescrizioni di un “foglietto informativo”, e nemmeno può dirsi che siano un qualcosa che accompagna il pensiero: sono piuttosto una manifestazione di esso, una vera e propria comunicazione di informazioni che non può e non deve essere ignorata, ma al contrario deve essere saputa leggere.

Il pensiero caring quale paradigma del pensiero emotivo suggerisce una certa visione della personalità soggettiva e di un setting di natura sociale5. Nella Comunità di Ricerca e nell’indagine filosofica le emozioni possono essere ‘testate’ dai ragazzi secondo quell’idea deweyana per la quale la scuola, e per analogia la Comunità di Ricerca, dovrebbe porsi come uno spaccato della vita sociale nel quale il bagaglio soggettivo può essere messa alla prova, discusso e forgiato costantemente allo scopo di evolversi e affinarsi. Il valore educativo della P4C risiede nella ri-strutturazione costante di un confronto trasversale che, con con un pretesto di discussione, mira all’approfondimento dei diversi aspetti della relazione umana, nel quale l’emotività gioca un ruolo fondamentale.

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. Emozione, dal latino emotus, participio passato del verbo emovere (smuovere, scuotere, tirar fuori).
2. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000, p. 70.
3. Essere e Tempo, Longanesi & C., Milano 2001, p. 235-236
4. in La “comunità di ricerca” educazione delle emozioni e prevenzione della violenza
5. A.M. Sharp, The other dimension of caring thinking, The journal of philosophy in school

[Photo credits Ryan Wallace su Unsplash.com]

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