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Anna Banti, “Artemisia”

Agosto 1944. Una donna è seduta sulla ghiaia di un viale nel giardino di Boboli, a Firenze. Come se firmasse un autoritratto, è la stessa autrice del romanzo, Anna Banti (1895-1985), che nella prima pagina si presenta al lettore in un drammatico momento della sua vita: un bombardamento alleato ha colpito la città, la sua casa è andata distrutta. Ma la sua disperazione è rivolta a un’altra perdita, molto diversa da quelle delle altre vittime che la circondano: un manoscritto al quale ha lungamente lavorato, spingendosi fino al punto in cui è difficile distinguere tra una creatura di carta e la persona (reale) che essa rappresenta: «Sotto le macerie di casa mia ho perduto Artemisia, la mia compagna di tre secoli fa, che respirava adagio, coricata da me su cento pagine di scritto».

Anna Banti, Artemisia (copertina) - La chiave di SophiaArtemisia – Gentileschi è il cognome – fu una grande pittrice dell’età barocca. Il canovaccio biografico su cui si basa il romanzo (pubblicato per la prima volta nel 1947) lo si può riferire con le stesse parole dell’autrice: «Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovanetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi. Le biografie non indicano l’anno della sua morte».

Il romanzo segue l’esile traccia di queste notizie, ma le circostanze di questa sua seconda scrittura gli danno un carattere problematico. L’autrice deve ricostruire un testo sapendo che non potrà mai riuscirci al grado di perfezione che vorrebbe; affronta i dubbi della memoria, le ansie di una nuova creazione; e spesso si sofferma a dialogare con la sua protagonista, con l’opera in corso, con il lettore: «L’ostinazione di Artemisia a farsi ricordare, la mia ostinazione a ricordarla capricciosamente, a sobbalzi commossi, sta diventando un gioco e forse un gioco crudele». «Di questa sua vita di Napoli, il fulcro della sua fama, è fatta sospettosissima, incerta se ricorderò quel che avevo scritto o se batterò nuova strada».

Leggiamo un romanzo e insieme assistiamo al formarsi del suo testo, e restiamo sorpresi da questo contrasto fra l’ambientazione storica e le riflessioni metaletterarie, del tutto novecentesche. La forma che l’autrice dà al romanzo sembra debitrice della stessa pittura barocca, con lunghe scene statiche, ognuna dedicata non tanto a un fatto quanto a un’epoca della vita della protagonista: «la velocità con cui le figurazioni della sua vita si succedevano e fluivano una  nell’altra oscilla, coagulata in quadri di lanterna magica lunare, piatti e freddi». Improvvisi lampi di luce illuminano i vari ambienti e il forte carattere della protagonista: dalla sua fanciullezza e dall’amicizia con la piccola e sfortunata Cecilia Nari, al dramma del processo contro il suo stupratore Agostino Tassi, al matrimonio combinato dal padre per restituire a Artemisia la sua “onorabilità”, ai viaggi e ai soggiorni in varie città (Firenze, Napoli, Londra) dove Artemisia insegue una sofferta, tenace, inquieta vocazione artistica.

«Le sue armi furono: dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada. Imparino queste femminette, questi pittorelli invaghiti di delicature». Nel cuore del romanzo una scena di grande suggestione la mostra in tutta la forza del suo talento: la creazione di uno dei suoi dipinti più grandi, Giuditta e Oloferne. Artemisia è a Firenze, circondata da alcune dame sue allieve, affascinate dall’imponente fisico del modello; ma la pittrice, nella sanguinosa scena, sta consumando una tarda vendetta raffigurandosi nelle vesti dell’eroina e dando a Oloferne i lineamenti dell’uomo che l’aveva stuprata. Una scena grandiosa, che restituisce tutto il mistero di un personaggio: «non è principessa, non è pedina, non è forese né mercantessa, non è eroina, non è santa. E neppure cortigiana: anche se quel che dicono fosse vero».

Giuliano Galletti

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (particolare)
[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
Citazioni tratte da: Anna Banti, Artemisia, Milano, SE, 2015.

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